Atti 1: Gli atti di Gesù Cristo

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1. Gli atti di chi?

Oggi cominciamo uno studio sul libro intitolato “Atti degli Apostoli”. Così partiamo già male. Ricordiamoci che i titoli dei libri biblici non sono stati ispirati. Non fanno parte dei manoscritti originali, e quindi non esito a dire che “Atti degli Apostoli” è fuorviante. È fuorviante nel senso che, mentre non del tutto sbagliato (in quanto il libro ne parla) focalizza l’attenzione soprattutto sugli atti “degli apostoli”. Se, però, leggiamo attentamente quello che Luca, l’autore del libro, dice all’inizio, ci accorgiamo subito che l’argomento principale è ben diverso: questi sono gli atti non tanto degli apostoli quanto di Gesù Cristo.

Al primo versetto, Luca, rivolgendosi a un certo Teofilo, gli ricorda del “primo libro” che ha scritto — ovvero l’omonimo vangelo anch’esso indirizzato a Teofilo (Luca 1:1-4) — in cui ha parlato “di tutto quello che Gesù cominciò a fare e a insegnare…”. Questa frase lascia intendere che il secondo libro — il secondo volume di un’unica opera che alcuni chiamano “Luca-Atti” — riporta ciò che Gesù “continuò” a fare e a insegnare. Notiamo, infatti, come i primi versetti di Atti riprendano il finale del vangelo di Luca che conclude con l’ascensione di Gesù:

Luca 24:50 Poi li condusse fuori fin presso Betania; e, alzate in alto le mani, li benedisse. 51 Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato su nel cielo. 52 Ed essi, adoratolo, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; 53 e stavano sempre nel tempio, benedicendo Dio.

In questo modo, Luca fa capire che la sua intenzione è quella di proseguire la stessa narrativa anziché iniziarne una nuova. Se il primo libro tratta di quello che Gesù “cominciò” a fare, questo secondo libro tratta di quello che Gesù “continuò” a fare. Sarebbe meglio, dunque, cambiare il titolo del libro da “Atti degli Apostoli” in “Atti di Gesù Cristo”.

2. La scelta del nuovo apostolo

A conferma di ciò, Luca riferisce, nella seconda parte del primo capitolo, la scelta di Mattia come apostolo al posto di Giuda. Dopo che Gesù ascende in cielo, i centoventi discepoli di Gesù si trovano insieme a pregare e ad aspettare la venuta dello Spirito Santo, come infatti Gesù gli aveva ordinato di fare. In questo contesto, Pietro si alza e, in base alle Scritture che profetizzavano il tradimento di Gesù da parte di Giuda, afferma il bisogno di scegliere un altro apostolo per sostituirlo:

21 Bisogna dunque che tra gli uomini che sono stati in nostra compagnia tutto il tempo che il Signore Gesù visse con noi, 22 a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno che egli, tolto da noi, è stato elevato in cielo, uno diventi testimone con noi della sua risurrezione.

“Bisogna dunque che … uno diventi testimone con noi”, in parte perché Salmo 109:8 ha previsto questa necessità (“Il suo incarico lo prenda un altro”), ma anche perché il numero degli apostoli deve corrispondere al numero delle tribù d’Israele come rappresentazione della redenzione del popolo ebraico, il che era parte integrante delle promesse veterotestamentarie che il Messia doveva adempiere. Senza dodici apostoli, la loro testimonianza sarebbe stata compromessa. Perciò, due uomini vengono presentati alla comunità dei discepoli, due che hanno i requisiti di essere stati tra i discepoli “a cominciare dal battesimo di Giovanni” e così un testimone oculare a “tutto quello che Gesù cominciò a fare e a insegnare”.

Ciò che è importante osservare a questo punto e come la scelta avviene. Non sono i centoventi discepoli a decidere, nemmeno gli undici apostoli e neanche Pietro (che, tra l’altro, ci si aspetterebbe se egli fosse stato il primo papa del dogma cattolico-romano). La modalità è chiara: pregano e chiedono al “Signore” — che in questo contesto non può essere altro che Gesù stesso — di mostrare loro “quale di questi due hai scelto” (v.24). L’utilizzo delle sorte (che potrebbe rialacciarsi al discorso del Urim e del Thummim portati dal sommo sacerdote e usati per capire la volontà di Dio — Esodo 28:30, 1 Samuele 14:41) ha proprio questo scopo, di lasciare a Gesù il diritto di rivelare la sua decisione. Ed è così che Mattia si unisce ai dodici, quando la sorte cade su di lui, indicando colui che il Signore ha scelto.

In questo modo, il capitolo finisce come inizia, in quanto Luca ricorda come nel suo primo libro ha parlato…

1 … di tutto quello che Gesù cominciò a fare e a insegnare 2 fino al giorno che fu elevato in cielo, dopo aver dato mediante lo Spirito Santo delle istruzioni agli apostoli che aveva scelti.

Evidenziando qui il fatto che sia stato Gesù a scegliere gli apostoli precedentemente, Luca fa vedere come sia stato di nuovo Gesù, nonostante la sua “assenza”, a scegliere il sostituto di Giuda. Non è che dopo la dipartita di Gesù, siano gli apostoli a dover subentrare al suo posto per ricoprire il ruolo da lui abbandonato. Lo stesso Gesù che ha scelto gli apostoli quando era fisicamente presente tra loro è sempre colui che li sceglie anche adesso dopo la sua ascensione in cielo.

3. La missione degli apostoli

Questa osservazione non solo rimarca quanto detto prima riguardo al titolo del libro, ma indica anche come dobbiamo leggere tutto quello che segue, e costituisce l’ottica per mezzo della quale dobbiamo concepire la nostra esistenza ed esperienza attuali come continuazione della stessa comunità di discepoli. Il libro di Atti è, dopotutto, solo il primo “capitolo” della stessa narrativa in cui stiamo vivendo adesso e in cui altre generazioni vivranno finché Gesù non “ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo” (1:11). Questa, infatti, è la nostra storia, e la maniera in cui comprendiamo la storia di Atti determinerà come comprenderemo la parte che noi abbiamo da svolgere.

Fondamentalmente, se pensiamo a Gesù come se fosse assente (un po’ come gli apostoli che all’inizio stavano a guardare il cielo), continueremo a chiamare questo libro “Atti degli Apostoli” e a considerare come nostro compito (oppure quello di qualcun altro come il prete o la chiesa) quello di riempire il vuoto lasciato da Gesù. Se, invece, permettiamo a questo libro di modellare il nostro pensare a sua immagine e se, come abbiamo già accennato, viviamo con una risoluta fiducia nella presenza e nell’attività di Gesù nonostante la sua apparente assenza, cambieranno radicalmente tutti i nostri modi di concepire la chiesa e la nostra missione come discepoli. Noi che in Italia siamo condizionati dalla tradizione cattolica-romana che fonda la sua teologia della chiesa mediatrice appunto sull’assenza di Cristo (come fa, per estensione, rispetto alle dottrine della mediazione di Maria e dei santi, dell’Eucaristia e del papato), l’enfasi di Atti sulla presenza di Cristo avrà su di noi un impatto non indifferente.

Consideriamo, dunque, il cuore del primo capitolo di Atti, cioè i versetti 4-11. Chiamo questa parte il “cuore” del capitolo perché è qui che Luca riferisce le ultime parole di Gesù agli apostoli prima di salire in cielo, le quali costituiscono le sue ultime istruzioni e il punto di lancio per tutto il libro che segue. Questi versetti, e in particolare v.8, fungono da “cartina” per il resto del libro che traccerà il movimento della testimonianza apostolica da Gerusalemme in tutta la Giudea e Samaria, e poi fino all’estremità della terra, rappresentata da Roma, il centro del potere imperiale, dove Paolo, alla fine, si trova “proclamando il regno di Dio e insegnando le cose relative al Signore Gesù Cristo con tutta franchezza e senza impedimento” (28:31).

Il libro di Atti inizia e finisce, quindi, con il Signore Gesù Cristo e l’annuncio del suo regno. Questo è infatti il tema principale dell’insegnamento di Gesù agli apostoli durante i quaranta giorni trascorsi dopo la risurrezione fino all’ascensione:

1:3 Ai quali anche, dopo che ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi vedere da loro per quaranta giorni, parlando delle cose relative al regno di Dio.

Questo non dovrebbe sorprendere chi, come Teofilo, ha già letto il primo libro di Luca, perché in esso si narra come Gesù, dalla sua nascita al suo ministero pubblico e culminando alla croce e alla risurrezione, ha rivelato, inaugurato e stabilito il regno di Dio come adempimento di “tutte le cose scritte … nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi” (Luca 24:44). Non è neanche sorprendente quando, al v.6 di Atti 1, gli apostoli chiedono a Gesù: “Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?”, il che costituiva una promessa importante nelle Scritture. Questa domanda non è da intendere in senso negativo (come fanno alcuni), come se gli apostoli parlassero di un sogno nazionalistico molto diverso da quello che Gesù insegnava.

Basta dare un’occhiata in avanti, al capitolo 15 di Atti, per smentire questa interpretazione. Atti 15 riporta la conferenza tenuta a Gerusalemme provocata da alcuni cristiani giudaici che imponevano ai cristiani gentili l’obbligo di essere circoncisi e di osservare la legge di Mosè (15:1-5). Gli apostoli si riuniscono a Gerusalemme per fare il punto della situazione. Dopo “una vivace discussione” (v.7), Giacomo, fratello di Gesù e leader della chiesa di Gerusalemme, cita il profeta Amos dove era scritta la seguente promessa del Signore:

15:16 Dopo queste cose ritornerò e ricostruirò la tenda di Davide, che è caduta; e restaurerò le sue rovine e la rimetterò in piedi, 17 affinché il rimanente degli uomini e tutte le nazioni, su cui è invocato il mio nome, cerchino il Signore…

Giacomo si riferisce a questa profezia per sostenere l’affermazione di Paolo, Barnaba e Pietro che “Dio all’inizio ha voluto scegliersi tra gli stranieri un popolo consacrato al suo nome” e che dunque non bisogna “turbare gli stranieri che si convertono a Dio” (15:14, 19). La cosa importante da osservare è che la promessa di Dio tramite Amos — la quale ha convinto tutti quelli lì riuniti da non imporre la circoncisione e la legge di Mosè ai credenti non ebraici — indicava che la ricostruzione della “tenda di Davide”, ossia il restauro del regno a Israele sotto la monarchia davidica, avrebbe avuto come effetto la conversione del “rimanente degli uomini e tutte le nazioni” al Signore.

Quando, dunque, gli apostoli domandano a Gesù se “è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?”, essi esprimono la speranza che concerne Israele come popolo, sì, ma che riguarda molto di più, ovvero la promessa (a cui Pietro poi si riferisce in Atti 3:25) che nella discendenza di Abraamo “tutte le nazioni della terra saranno bendette”. Che Gesù stesso non contraddica gli apostoli o li rimproveri per la loro incomprensione (come ha già fatto tante altre volte nel vangelo!) dimostra che il loro quesito non è fuori luogo. Gesù è, infatti, il figlio di Davide e l’erede del suo trono.

Secondo Gesù, ciò che non spetta agli apostoli di sapere non è il regno ristabilito a Israele (che Gesù senz’altro ha inaugurato), ma piuttosto “i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità” (v.7). Gli apostoli, in altre parole, non devono guardare il calendario o l’orologio, per così dire, bensì devono occuparsi della missione che Gesù sta per affidargli, quella di essere i suoi testimoni “in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all’estremità della terra” (v.8). La domanda giusta non è quando ma come il regno verrà, e la risposta di Gesù è questa: per mezzo della vostra testimonianza.

4. La presenza dell’Assente

Attenzione, però! Non dobbiamo intendere le parole di Gesù nel senso sbagliato di prima, cioè che Gesù sta per assentarsi dalla terra, e così toccherà agli apostoli (e poi ai loro successori) supplire alla sua mancanza. Da questo testo impariamo che, anche se in forma diversa dopo la sua ascensione, Gesù rimane presente e attivo, sempre il Signore, sempre il Salvatore, sempre il vero Re-Sacerdote-Profeta e Capo della sua chiesa che nessuno deve o può sostituire. Luca ci fa capire questo in tre modi importanti.

Lo Spirito Santo

Il primo è la venuta dello Spirito Santo di cui Gesù parla ai vv.4-5 come “l’attuazione della promessa del Padre” e il battesimo del quale quello di Giovanni è stato la prefigurazione. La “promessa del Padre” risale all’Antico Testamento, dove era parte centrale del nesso di speranze di ciò che il Signore avrebbe fatto per redimere Israele e benedire tutte le nazioni. Mentre la presenza di Dio dimorava allora nel tempio, nel luogo santissimo che solo il sommo sacerdote poteva entrare una volta all’anno, Dio ha promesso che avrebbe fatto del suo popolo un tempio, santificandolo e facendo dimorare il suo Spirito non solo con loro ma proprio dentro di loro (a.es. Ezechiele 36:24-27).

Poi, quando Giovanni battezzava con acqua, egli dichiarava che il suo era solo un battesimo simbolico, e che il battesimo vero, cioè “in Spirito Santo e fuoco”, avrebbe portato colui a cui Giovanni preparava la via, ovvero il Messia Gesù. Questo è proprio ciò che avviene il giorno della Pentecoste quando, al capitolo 2 di Atti:

3 Apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano e se ne posò una su ciascuno di loro. 4 Tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parla in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi.

Poi al v.33, Pietro spiega nel suo sermone che è stato Gesù che…

… essendo stato esaltato alla destra di Dio e avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, ha sparso quello che ora vedete e udite.

Il punto è questo: Gesù è stato elevato in cielo e, come dice al 1:9, sottratto agli sguardi degli apostoli; tuttavia, questo gli ha permesso di spargere lo Spirito nei suoi seguaci in modo da essergli ancora più vicino. Mentre era con loro fisicamente, era appunto solo “con” loro, ma da ora in poi, egli per mezzo dello Spirito è “in” loro e anche in tutti quelli che, come Pietro annuncia alla fine del suo sermone, si ravvedono e si battezzano nel nome di Gesù Cristo (2:38). Ecco perché Paolo, in Galati 2:20, può dire che “Cristo vive in me”. Che grande benedizione!

Gli apostoli come testimoni

Il secondo modo in cui vediamo la non-diminuita presenza di Gesù dopo la sua ascensione è nell’incarico affidato agli apostoli al 1:8: “mi sarete testimoni”. Questo è lo stesso termine che Pietro usa per descrivere gli apostoli al v.22, e poi anche nel suo sermone al capitolo 2:

32 Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò noi tutti siamo testimoni.

Ora, un testimone non è l’attore principale di una determinata vicenda; piuttosto è la persona chiamata solo per dare conferma o prova di quello a cui ha assistito. L’azione di cui rende testimonianza è stata compiuta da qualcun altro. In questo senso, la parola “testimone” calza perfettamente al ruolo degli apostoli. Dopo la sua ascensione, Gesù non ha bisogno di mediatori o di vicari per fare le sue veci perché egli rimane sempre il protagonista e l’attore principale di questa storia. La chiesa che nasce a Pentecoste non è nemmeno una specie di “prolungamento dell’incarnazione” (come la concepisce la teologia cattolica-romana), in quanto Gesù resta sempre Emmanuele, Dio con noi, per mezzo del suo Spirito. Ecco perché tanti anni dopo l’ascensione, Paolo scrive in 1 Timoteo 2:5 che ancora c’è “un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo”.

Anche lo stesso Luca non ci lascia dubitare. Alla fine del capitolo 2, dopo il sermone di Pietro da cui risulta la nascita della chiesa, Luca aggiunge questo commento:

47 … Il Signore aggiungeva al loro numero ogni giorno quelli che venivano salvati.

Il Signore! Non Pietro, non gli altri apostoli, ma il Signore Gesù stesso era all’opera per salvare le persone. Fisicamente non si poteva vedere, ma non per questo era assente o inattivo! Anzi, sono in più le persone convertite dopo la sua ascensione che prima, mentre camminava per le vie della Galilea! Ecco perché, ancora una volta, vediamo che questo libro dovrebbe essere intitolato “Atti di Gesù Cristo”, perché è sempre lui, e solo lui, che edifica la sua chiesa!

Il significato dell’ascensione

Infine, il terzo modo in cui vediamo la presenza del Gesù “assente” è proprio nel significato dell’ascensione stessa. Non è casuale la ripetizione del termine “elevato” per descrivere l’ascensione ai vv. 2, 9, 11, e 22. Questo “elevato” corrisponde a quello che Pietro dichiara al 2:33:

33 Egli dunque, essendo stato esaltato dalla destra di Dio e avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, ha sparso quello che ora vedete e udite.

Pietro prosegue parlando di Davide che è rimasto nella tomba e “non è salito in cielo” ma, nel Salmo 110, aveva scritto del suo Figlio che si sarebbe seduto alla destra di Dio come Signore. La conclusione di tutto ciò è, come afferma Pietro al 2:36:

Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso.

In Atti 1-2, dunque, l’ascensione di Gesù è presentata non tanto come il suo assentarsi dalla terra quanto come il suo insediamento sul trono dell’universo in cielo. Se il cosmo avesse una “sala di controllo”, sarebbe laddove Gesù siede ora alla destra del Padre. Gesù è stato “tolto” ed “elevato” in cielo, sì, ma è successo affinché egli potesse diventare più attivo che mai sulla terra! Da dove egli è adesso, regna e opera non solo nella Galilea e nella Giudea (le regioni in cui le attività erano maggiormente limitate prima della crocifissione), ma fino alle estremità della terra! Il libro di Atti n’è la conferma in quanto riferisce l’adempimento delle parole di Gesù al 1:8 fino ad arrivare a Roma dove Paolo annuncia Gesù quale Signore proprio nel cuore del potere imperiale e sotto il naso dell’imperatore!

Il punto di tutto ciò dovrebbe essere ovvio: pur essendo in un certo senso “assente”, Gesù è, in realtà, più presente e attivo che mai, operando per mezzo del suo Spirito e della testimonianza dei suoi seguaci per diffondere la sua parola, per benedire le nazioni e per rivelare il suo regno in ogni parte della terra.

5. Conclusione

In conclusione, ci sono tantissime cose che potremmo dire che ci riguardano personalmente. Quello che abbiamo imparato oggi ha conseguenze radicali su ogni aspetto della nostra vita, nonché su tutto il mondo. Ridimensiona il modo in cui leggiamo il giornale e interpretiamo gli avvenimenti politici. Influisce sul tipo di ragione che ci facciamo dei mali e delle guerre che affliggono la terra, e ci ravviva la speranza nonostante tutte le vicissitudini e problematiche della vita. Ma quello su cui voglio concentrarmi è proprio l’impatto sulla comunità cristiana, su come si concepisce, si organizza e si gestisce. Il libro di Atti avrà più da insegnarci in proposito, ma possiamo già fare qualche osservazione.

Ho già accennato alle differenze tra le tradizioni cattolica-romana e quella evangelica. La prima è la chiesa organizzata sul principio del “Gesù assente” mentre la seconda è la chiesa organizzata sul principio di Gesù fisicamente assente, sì, ma tramite lo Spirito più presente e attivo che mai, il quale è il punto di partenza del libro di Atti. Solo se Gesù è assente nel senso di aver in effetti “abdicato” ai suoi ruoli quali Sacerdote, Re e Profeta subentrerà la chiesa a riempire il vuoto con i propri sacerdoti, la propria gerarchia d’autorità e il proprio magistero d’insegnamento. Solo se Gesù non è il sempre attivo Capo e Pastore della chiesa, ci sarà bisogno di un “vicario” come il papa per rappresentarlo. Solo se Gesù non è già presente in mezzo alla sua chiesa ci sarà la necessità di renderlo presente attraverso il rito dell’Eucaristia.

Se, però, affermiamo, come in Atti, la reale presenza di Cristo e la sua costante attività nella chiesa, ci accorgeremo che non possiamo — e quindi non dobbiamo neanche cercare di — sostituirlo con nessun altro: nessun pastore, nessun anziano, nessun prete, nessun diacono, nessun insegnante. Gesù ha certamente dato alla chiesa persone che svolgono ruoli di guida e di insegnamento, ma alla fine questi non hanno nessuna funzione se non in qualità di meri testimoni a colui che è il vero Pastore, il vero Insegnante, il vero Conduttore della chiesa.

La pretesa che ci debba essere una figura nella chiesa come il papa, il vescovo o il sacerdote — come la concepisce la tradizione cattolica-romana — è fondamentalmente una mancanza di fede e di fiducia in Gesù che ancora fa tutto questo in e per la sua chiesa. La comunità cristiana riunita deve avere un senso tangibile, palpabile, della presenza e dell’attività di Gesù nel suo mezzo, e deve risposarsi in tutto ciò che egli è e fa per lei. Non c’è infatti mediatore più efficace, capo più elevato, signore più autorevole, pastore più tenero e fonte di grazia più abbondante che Gesù Cristo che, alla fine del vangelo di Matteo, ha promesso: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (28:20). Cosa di più potremmo desiderare? Poiché Gesù è il nostro Pastore sempre presente e sempre attivo, possiamo affermare insieme al salmista: “Nulla mi manca” (Salmo 23:1).

Amen!

Luca 22-23: Lo sconvolgente silenzio della parola di Dio

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1. L’opposizione della falsità alla verità

Uno degli elementi più palesi nei vangeli è l’opposizione, sempre più crescente e ostile, a Gesù, in particolare posta da parte dei capi sia religiosi che politici, sia giudei che gentili. Mentre all’inizio del suo ministero pubblico, Gesù veniva largamente acclamato (o almeno tollerato) per i suoi insegnamenti autorevoli e i suoi prodigi di guarigione, man mano molti venivano a considerarlo una minaccia ai poteri esistenti e, su scala maggiore, a tutto il popolo d’Israele e all’ordine pubblico dell’impero romano.

Questa resistenza giunge al culmine la settimana da noi chiamata “santa”, quando Gesù arriva a Gerusalemme, presentandosi apertamente come Messia, sebbene in senso diverso da quello che si aspettava e voleva la maggior parte degli ebrei. Le sue azioni nel tempio — quando interrompe il commercio e i preparativi alla più grande festa dell’anno, ossia la Pasqua — sono la famosa “goccia che fa traboccare il vaso”, e nei giorni precedenti alla festa, Gesù si trova a discutere con vari opponenti mentre insegna nel tempio, tra cui i sacerdoti, gli scribi e gli anziani del popolo. Il loro scopo nel discutere con Gesù è riportato al v.20 di Luca 20:

Si misero a osservare Gesù e gli mandarono delle spie che fingessero di essere giusti per coglierlo in fallo su una sua parola e consegnarlo, così, all’autorità e al potere del governatore.

Le loro macchinazioni non funzionano, però, perché Gesù si dimostra sempre troppo saggio, e alla fine devono ammettere la sconfitta:

20:39 Alcuni scribi, rispondendo, dissero: «Maestro, hai detto bene». 40 E non osavano più fargli alcuna domanda.

Tuttavia, non si arrendono del tutto in quanto cambiano soltanto strategia: quello che non riescono a fare alla luce del giorno, lo faranno di nascosto e per mezzo dell’inganno. Si presenta l’occasione quando uno dei dodici apostoli, Giuda Iscariota, si offre per condurli laddove Gesù trascorre la notte in modo che essi possano arrestarlo senza che la folla lo sappia. Segue poi un processo fasullo e illegale durante il quale cercano di trovare un pretesto per poterlo condannare davanti alle autorità romane, le uniche autorizzate a eseguire la pena di morte.

Ciò che diventa molto evidente in tutto questo è la totale negligenza della verità. Quando, infatti, i capi giudaici portano Gesù davanti a Pilato, il prefetto romano della regione, lo accusano di sovversione, che lui “istigava a non pagare i tributi a Cesare” (23:2), una menzogna lampante in quanto Gesù ha esplicitamente detto di rendere “a Cesare quello che è di Cesare” (20:25). Ma gli avversari di Gesù non si interessano per niente alla verità, la quale gli risulta solo un incomodo ai fini di mettere Gesù a morte. In un senso, dunque, si può leggere la narrativa degli ultimi giorni di Gesù nell’ottica del trionfo (almeno temporaneo) della falsità.

2. Il silenzio di Gesù

Questa prospettiva è confermata da un aspetto molto interessante degli ultimi capitoli del vangelo di Luca, in particolare dal 20 al 23, ovvero da subito dopo che Gesù purifica il tempio fino a quando viene crocifisso. Se li mettiamo a confronto, guardando specificamente le parole di Gesù, osserviamo una cosa peculiare: mentre i capitoli dal 20 al 22 sono maggiormente dominati dalle parole di Gesù, al capitolo 23 — o più preciso ancora, dal 22:54 in poi — Gesù quasi smette di parlare. Questo risulta molto chiaro in quelle edizioni della Bibbia in cui le parole di Gesù sono evidenziate in rosso; mentre dal 20:1 al 22:53 la maggioranza del testo è rossa, dal 22:54 in avanti è nera.

Questa osservazione non emerge solo considerando la quantità delle parole di Gesù ma risulta chiara anche da quello che Gesù stesso si limita a dire dopo 20:53 quando, non a caso, egli dichiara:

Mentre ero ogni giorno con voi nel tempio, non mi avete mai messo le mani addosso; ma questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre.

A parte il ricordo di Pietro di ciò che Gesù gli ha predetto circa il suo triplice rinnegamento (22:61), Gesù parla ora solo per ritorcere le domande e le accuse contro i suoi accusatori, senza mai dare una risposta diretta. Al v.67, quando I capi religiosi ordinano a Gesù di dichiarare se è il Cristo, egli risponde così:

Anche se ve lo dicessi, non credereste; e se io vi facessi delle domande, non rispondereste.

Essi sono già decisi di non credere; perché dunque rispondere alle loro domande? L’unica cosa che Gesù gli offre è una mera citazione del profeta Daniele al v.69:

Ma da ora in avanti il Figlio dell’uomo sarà seduto alla destra della potenza di Dio.

Senza qualche commento o spiegazione, l’intenzione di Gesù resta ambigua, perciò i suoi accusatori gli domandano al v.70: “Sei tu, dunque, il Figlio di Dio?”, a cui Gesù risponde dicendo semplicemente:

Voi stessi dite che io lo sono.

Quando poi Gesù viene portato davanti a Pilato il quale gli chiede similmente al v.3: “Sei tu il re dei Giudei?”, la risposta di Gesù è uguale:

Tu lo dici.

Tentando di scaricare la responsabilità su qualcun altro, Pilato manda Gesù da Erode, il quale ha giurisdizione sulla Galilea ma si trova a Gerusalemme per la Pasqua. Il silenzio di Gesù nei confronti di Erode è assoluto:

8 Quando vide Gesù, Erode se ne rallegrò molto, perché da lungo tempo desiderava vederlo, avendo sentito parlare di lui; e sperava di vedergli fare qualche miracolo. 9 Gli rivolse molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. 

Mandato di nuovo a Pilato, Gesù continua a non dire nulla, anche quando i suoi nemici pretendono che venga crocifisso e sia liberato invece Barabba, un vero criminale che ha fomentato una sommossa e commesso un omicidio. Il risultato di tutto quanto il processo è riferito ai vv.24-25 del capitolo 23:

24 Pilato decise che fosse fatto quello che domandavano: 25 liberò colui che era stato messo in prigione per sommossa e omicidio, e che essi avevano richiesto; ma abbandonò Gesù alla loro volontà.

Anche se non citato da Luca, è difficile leggere questa narrativa senza ricordare la profezia di Isaia 53:7:

Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca.

3. La potenza delle tenebre

È opportuno soffermarci a questo punto per riflettere su quello che Luca vuole insegnarci in questi capitoli. La scarsità di parole da parte di Gesù al cap. 23 costituisce un netto contrasto all’abbondanza delle stesse in precedenza, e per uno scrittore molto attento come Luca (1:1-4), questo non può essere un elemento casuale del vangelo. Non è nemmeno un caso che la narrativa del processo e della condanna di Gesù — quando egli tace quasi completamente — sia racchiuso da due affermazioni molto suggestive che meritano di essere rilette:

22:53 … ma questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre.

23:24 Pilato decise che fosse fatto quello che domandavano: 25 … abbandonò Gesù alla loro volontà.

Se guardiamo attentamente il quadro completo, vediamo le tenebre totali che risultano dal silenzio della parola di Dio. Questo testo ci insegna che la natura umana è fondamentalmente opposta alla verità, tanto che essa, privata della parola di Dio che solo può liberarla dalla falsità, si consegna sempre alle tenebre e alla rovina. Perché arriviamo a questa conclusione? Consideriamo innanzitutto come Luca presenti l’opposizione a Gesù non come un male commesso da un gruppo di giudei del primo secolo dal quale noi, a posto loro, sicuramente ci saremmo astenuti. No, la loro colpa è “vicaria” nel senso che rappresenta la stessa colpa in cui ogni essere umano è coinvolto nei confronti del proprio Creatore e Signore. Nella narrativa, non solo I giudei ma anche i romani si fanno complici. Neanche gli apostoli ne escono puliti: Giuda, come ben saputo, tradisce Gesù; Pietro lo rinnega mentendo tre volte, e gli altri lo abbandonano per salvare se stessi! Alla fine, Gesù rimane solo, l’unico innocente e giusto. Se ci fossimo stati noi — se ci fosse stata qualsiasi altra persona — saremmo stati tutti colpevoli di aver partecipato alla sua condanna falsa e ingiusta.

La condanna di Gesù funge, dunque, come condanna di tutti quelli che lo hanno condannato, compresi anche noi in quanto essi ci rappresentano. La loro colpa si vede chiaramente nel fatto che “ogni giorno” Gesù era “nel tempio” con loro a insegnare, ma non gli hanno mai “messo le mano addosso” perché non avevano giustificazione per farlo. Hanno aspettato la notte per arrestare Gesù, ed è stato proprio il buio della notte a simboleggiare le tenebre dei loro — e anche dei nostri — cuori. Ricordiamoci: ben tre volte Pietro, il portavoce degli apostoli, ha rinnegato Gesù durante lo stesso processo, dimostrando di essere anche lui un falso testimone e perciò sotto la potenza delle tenebre. Perché penseremmo, dunque, di essere diversi?

La condanna è questa, che “abbandonò Gesù alla loro volontà”. La loro — e anche la nostra — volontà è fondamentalmente opposta a quella di Dio, esemplificata dalla risolutezza con la quale si pretendeva la crocifissione di Gesù, persino al prezzo di dover liberare un vero criminale per farlo. Questa è la nostra volontà, che preferiamo la compagnia di un assassino come Barabba anziché la presenza del nostro Signore. Tanto è accanita la nostra resistenza alla volontà di Dio che neghiamo ciò che è palesemente vero per auto-ingannarci con ciò che è palesemente falso. Anche dopo aver sentito Gesù dire: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare” (22:25), siamo disposti a insistere che Gesù “istigava a non pagare I tributi a Cesare” (23:2). Poiché la nostra volontà è diametralmente opposta alla volontà di Dio — tanto che facciamo di tutto per evitare le istanze della verità su di noi — ci consegniamo da soli alla potenza delle tenebre che è la nostra totale rovina: “questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre” (22:53).

La narrativa del processo, della condanna e della crocifissione di Gesù costituisce, da un lato, un esposto, una denuncia (per così dire) della nostra innata tendenza di sopprimere la verità con la menzogna e con l’inganno, di far tacere la parola di Dio che contraddice la nostra volontà. Ci mostra, nella maniera più terribile possibile, le conseguenze di questa nostra tendenza — che uccideremo il Figlio di Dio per far sì che la nostra volontà sia fatta, ma così facendo, negando la Parola di Dio, non abbiamo altro che falsità. Spegnendo la Luce del mondo, non abbiamo altro che le tenebre. Ammazzando l’Autore della vita, non abbiamo altro che la morte.

4. La più grande potenza della parola di Dio

Se in questa narrativa la falsità sembra prevalere, è per manifestare la grande potenza delle tenebre, la grande forza dell’opposizione della volontà umana alla volontà di Dio. Tuttavia, la narrativa evidenza la sempre più grande potenza della verità della parola di Dio, benché in modo paradossale: la falsità prevale solo quando Gesù tace. Rileggiamo 22:53 in quest’ottica:

Mentre ero ogni giorno con voi nel tempio, non mi avete mai messo le mani addosso; ma questa è l’ora vostra, questa è la potenza delle tenebre».

Mentre Gesù insegnava ogni giorno nel tempio, nessuno gli metteva le mani addosso. Nessuno poteva! È solo dopo che Gesù smette di parlare che l’ora della “potenza delle tenebre” può iniziare. E per lo stesso motivo, le tenebre saranno sconfitte quando la parola di Gesù si avvererà il terzo giorno dopo la crocifissione, come testimoniano gli angeli alle donne che vanno per ungere la salma di Gesù:

24:5 …«Perché cercate il vivente tra i morti? 6 Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quando era ancora in Galilea, 7 dicendo che il Figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare». 8 Esse si ricordarono delle sue parole.

Sarà, inoltre, la parola di Gesù che rivelerà lo stupefacente, quasi inimmaginabile fatto che la sua morte che pareva il trionfo della falsità e della potenza delle tenebre è stata in realtà la loro sconfitta e la vittoria definitiva della volontà di Dio, già anticipata secoli prima nelle Scritture:

24:44 Poi disse loro: «Queste sono le cose che io vi dicevo quando ero ancora con voi: che si dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi». 45 Allora aprì loro la mente per capire le Scritture e disse loro: 46 «Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, 47 e che nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme». 

Da tutto ciò dobbiamo imparare bene questa lezione: come la parola di Dio è l’unica cosa che impedisce alla falsità di porre efficace resistenza alla verità, così è l’unica cosa che salva l’umanità dalla propria volontà auto-distruttiva. Dal momento in cui tentiamo di far tacere la parola di Dio (impresa già di per sé destinata a fallire) o smettiamo di ascoltarla, diamo di nuovo potere alle tenebre di ingannarci, di imprigionarci, di metterci sulla via che porta alla rovina. Come dimostrato in questa parte del vangelo di Luca, non c’è cosa più pericolosa, più devastante, più micidiale che il silenzio di Dio.

Azzittita la sua voce, la potenza delle tenebre e della volontà umana non ha più freni o limiti. Da quando cominciamo a non ascoltare più la parola di Dio, diamo il via libera alla falsità di sopraffarci e di sconfiggerci. In quanto, secondo Efesini 6:17, la parola di Dio è “la spada dello Spirito”, se la deponiamo, manchiamo dell’unica arma che abbiamo per combattere “contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti” (Efesini 6:12). Se, come afferma sempre Gesù, “Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio” (Luca 4:4; Matteo 4:4), iniziamo a morire quando trascuriamo la sua parola.

Ciò che facciamo nei confronti della parola di Dio è, senza esagerare, una questione di vita e di morte. Anzi, è la questione di vita e di morte. Essa è la nostra difesa contro la potenza delle tenebre, la nostra arma contro la falsità, il nostro soccorso nelle afflizioni e la nostra liberazione dalla morte. Questo non vuol dire che ascoltarla sarà sempre facile o gradevole; bensì dovrà spesso porre resistenza alla nostra tendenza di resistere alla verità e alla volontà di Dio! Ma la sua opera in noi è sempre necessaria e salutare, e la trascuriamo a nostra rovina.

Quanto è preziosa, dunque, la parola di Dio! Come dovrebbe essere il nostro costante diletto e la nostra incessante meditazione, come nel primo salmo:

1 Beato l’uomo … 2 il cui diletto è nella legge del SIGNORE, e su quella legge medita giorno e notte.

Questo non è oneroso per chi dichiara insieme al salmista nel Salmo 119:

72 La legge della tua bocca per me vale più di migliaia di monete d’oro e d’argento. 103 Oh, come sono dolci le tue parole al mio palato! Sono più dolci del miele alla mia bocca.

Che possiamo anche noi considerare la parola di Dio più preziosa dell’ora, più dolce del miele, e più importante alla vita che pane!

Amen!

Luca 18: Ricevere il regno come un bambino

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1. Introduzione

Gesù non smette mai di sorprenderci. Anche al capitolo 18 del vangelo di Luca, dopo che i discepoli lo seguono da circa tre anni, trascorrendo ogni giorno accanto a lui a vederlo operare e a sentirlo insegnare, essi rimangono perplessi da ciò che il Maestro dice. Questa è l’esperienza comune anche di tutti i discepoli di Gesù fino a oggi. Se Gesù non ci sorprende più, è perché non lo ascoltiamo più. Come dimostra il vangelo ripetutamente, nel momento in cui uno pensa di aver inquadrato Gesù e di averlo capito fino in fondo, egli fa qualcosa per rompere gli schemi e sconvolgere tutto, esattamente come ha fatto nel tempio rovesciando le tavole dei mercanti. E così deve essere, perché (senza togliere nulla dalla sua piena umanità) solo un Salvatore radicalmente diverso da noi sarebbe in grado di salvarci. Un salvatore che la pensa come noi non sarebbe offensivo, certo, ma non sarebbe neanche in grado di salvarci dai nostri modi corrotti di pensare.

Quindi, come afferma Paolo in Romani 12:2, gran parte della vita cristiana consiste nell’essere “trasformati mediante il rinnovamento della [nostra] mente, affinché [conosciamo] per esperienza quale sia la volontà di Dio”. Questo processo di trasformazione non è facile ma è indispensabile al diventare conformi all’immagine di Gesù, il più grande scopo e desiderio di ogni vero discepolo.

Il capitolo 18 del vangelo di Luca ci illustra come infatti sia difficile il rinnovamento della nostra mente, ma non dobbiamo presumere di sapere già perché è così. Come sempre, Gesù capovolge le nostre aspettative, e dobbiamo venire per ascoltarlo “a mani vuote”, cioè senza pretese o idee già fatte di quello che ha da insegnarci. Come vediamo in questo testo, infatti, la chiave di comprensione è una sorta di ingenuità nei confronti di Gesù, proprio come un bambino nei confronti dei suoi genitori. Molti pensano che per comprendere il vangelo — e per estensione tutta la parola di Dio — bisogna essere istruiti, bisogna avere una grande formazione scolastica alle spalle, oppure bisogna aspettare che qualcuno istruito e ben formato glielo spieghi. Secondo il sorprendente insegnamento di Gesù in questo capitolo di Luca, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Per entrare nel regno di Dio, bisogna essere invece come bambini.

2. L’incomprensione dei grandi (Luca 18:31-34)

31 Poi, prese con sé i dodici, e disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e saranno compiute riguardo al Figlio dell’uomo tutte le cose scritte dai profeti; 32 perché egli sarà consegnato ai pagani, e sarà schernito e oltraggiato e gli sputeranno addosso; 33 e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno; ma il terzo giorno risusciterà». 34 Ed essi non capirono nulla di tutto questo; quel discorso era per loro oscuro, e non capivano ciò che Gesù voleva dire.

L’abitudine dell’incomprensione

La prima cosa da notare in Luca 18 è l’incomprensione dei “grandi” esemplificata in due modi diversi. Al v.34, sono i discepoli che, quando Gesù gli spiega che cosa sta per accadere — il tradimento, la crocifissione, la risurrezione — “essi non capirono nulla di tutto questo” perché “quel discorso era per loro oscuro, e non capivano ciò che Gesù voleva dire”. Non è la prima volta che i discepoli non riuscivano a capire ciò che Gesù voleva dire; quando al capitolo 9 Gesù gli ha predetto la stessa cosa riguardo alla sua morte, Luca riferisce che:

45 Ma essi non capivano queste parole che erano per loro velate, così da risultare incomprensibili, e temevano di interrogarlo su quanto aveva detto.

Senza ripercorrere tutti gli esempi (di cui ci sono tanti, e non solo relativi al destino del Messia), possiamo tranquillamente concludere che i discepoli dimostravano l’abitudine dell’incomprensione. Più volte o non capivano l’insegnamento di Gesù o ne travisavano il significato. E questi erano quelli che stavano con Gesù letteralmente giorno e notte a sentire ogni parola che usciva dalla sua bocca!

Ora, una possibile reazione potrebbe essere questa: se loro avevano difficoltà a comprendere Gesù, figuriamoci noi! Questa conclusione avrebbe una certa logica, è vero, ma sarebbe una logica del tutto sbagliata alla luce del resto del capitolo.

La non ancora avvenuta risurrezione

Prima di considerarlo, voglio aprire una piccola parentesi per precisare un punto importante. Senza minimizzare ciò che impareremo studiando questo capitolo, è anche necessario renderci conto che, nel contesto generale del vangelo di Luca e del suo seguito, il libro di Atti, la piena comprensione della persona e dell’opera di Gesù doveva aspettare la sua risurrezione e la discesa dello Spirito Santo per dare illuminazione alle menti degli apostoli. Così leggiamo alla fine del vangelo, al capitolo 24:

44 Poi [Gesù] disse [ai discepoli]: «Queste sono le cose che io vi dicevo quando ero ancora con voi: che si dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi». 45 Allora aprì loro la mente per capire le Scritture e disse loro: 46 «Così è scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno…

Le Scritture non si possono capire veramente senza che il Signore ci apra la mente per capirle. Ma il punto da sottolineare più volte è il seguente: proprio per questo motivo, non dobbiamo affatto concludere che bisogna diventare dottori di teologia per comprendere la parola di Dio. Tale nozione sarebbe diametralmente opposta a ciò che Gesù qui afferma: non dipende dalle capacità umane, ma piuttosto dall’illuminazione che solo Dio dà. Detto ciò, proseguiamo nello studio.

La responsabilità di comprendere (18:18-27)

18 Uno dei capi lo interrogò, dicendo: «Maestro buono, che devo fare per ereditare la vita eterna?» 19 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio. 20 Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio; non uccidere; non rubare; non dir falsa testimonianza; onora tuo padre e tua madre». 21 Ed egli rispose: «Tutte queste cose io le ho osservate fin dalla mia gioventù». 22 Gesù, udito questo, gli disse: «Una cosa ti manca ancora: vendi tutto quello che hai, e distribuiscilo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». 23 Ma egli, udite queste cose, ne fu afflitto, perché era molto ricco. 24 Gesù, vedendolo così triste, disse: «Quanto è difficile, per quelli che hanno delle ricchezze, entrare nel regno di Dio! 25 Perché è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio». 26 Quelli che udirono dissero: «Chi dunque può essere salvato?» 27 Egli rispose: «Le cose impossibili agli uomini sono possibili a Dio».

Il secondo esempio di un “grande” che non comprende Gesù è “uno dei capi” dei giudei. Sappiamo dagli altri vangeli che egli era un “giovane ricco”, e anche Luca ci dirà, al v.23, che “era molto ricco”. Ma dobbiamo stare attenti ai particolari della narrativa come Luca la presenta, senza andare a chiedere in prestito dettagli da altri vangeli come se Luca non ce ne avesse fornito abbastanza. Luca ha uno scopo ben preciso, e ci dice esattamente ciò che vuole farci sapere. Non ci presenta questo interlocutore di Gesù come un “giovane ricco”, ma piuttosto come “uno dei capi”. Questo è importante, perché stabilisce così un contrasto (che fra poco approfondiremo) con i bambini, cioè i piccoli. Luca vuole che riflettiamo sul confronto tra un “grande”, “uno dei capi”, e i piccoli, i bambini.

Come appena detto, vediamo in questo personaggio un altro esempio di incomprensione nei confronti di Gesù. Ora, qualcuno potrebbe replicare: “Ma egli sembra capire Gesù perfettamente, perché quando Gesù gli dice di vendere tutto quello che ha e distribuirlo ai poveri, rimane triste a causa delle sue ricchezze. Se non ha capito, perché allora risponde al comando di Gesù in questo modo?”

È vero che, in un senso, il capo ricco ha capito Gesù. Ha capito che doveva vendere tutti i suoi beni e dare il ricavato ai poveri, e perciò c’è rimasto male perché non voleva farlo. Però, sin dall’inizio del suo incontro con Gesù, vediamo indicazioni che non comprende, sul livello più profondo, con chi ha a che fare. Si rivolge a Gesù chiamandolo “Maestro buono”, al quale Gesù ribatte dicendo: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio”. Questo non è da intendere come se Gesù negasse la sua natura divina. Piuttosto, Gesù fa quello che C.S. Lewis spiega ne “Il cristianesimo così com’è” (p.80):

Un uomo che fosse soltanto un uomo e dicesse le cose che diceva Gesù non sarebbe un grande maestro morale. Sarebbe un pazzo — alla pari di uno che affermi di essere un uomo in camicia — oppure sarebbe il diavolo in persona…. O quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio; o altrimenti era un folle o peggio ancora. Possiamo rinchiuderlo come pazzo, possiamo coprirlo di sputi e ucciderlo come demonio; o possiamo cadere ai Suoi piedi e chiamarLo Signore e Dio. Ma non ce ne usciamo con condiscendenti assurdità sul Suo essere un grande maestro umano. Gesù non ci ha lasciato questa scappatoia.

Il resto della conversazione segue come un effetto a catena; poiché il capo non comprende di essersi rivolto non a un maestro buono ma al Figlio di Dio, quello che Gesù gli dice di fare gli risulta altrettanto incomprensibile. Non riesce a comprendere (e quindi un’altra incomprensione!) che avere “un tesoro in cielo” ha infinitamente più valore di tutte le sue ricchezze terrene. E infine, non comprende che la ricchezza più grande è Gesù stesso, così che quando Gesù lo chiama di diventare un suo discepolo, ne rimane deluso. Da incomprensione nasce incomprensione, e da incomprensione nasce l’incapacità di entrare nel regno di Dio.

Il punto, però, è che il capo aveva la responsabilità di comprendere. Gesù non giustifica la sua incomprensione dicendo: “Eh, va bene, tanto non sono ancora risuscitato dai morti e lo Spirito Santo non è ancora disceso!”. Quando afferma, al v.24, che “è difficile, per quelli che hanno delle ricchezze, entrare nel regno di Dio”, sottintende comunque che il capo avrebbe dovuto seguire il suo comando e, nonostante la difficoltà nel farlo, sarà tenuto responsabile per la sua disubbidienza.

Quelli che hanno sentito questa conversazione, però, sono rimasti sconvolti, perché se (come si credeva allora, e sovente si crede tuttora!) i ricchi sono benedetti da Dio e hanno difficoltà nell’entrare nel regno, che speranza c’è per tutti gli altri? Così la loro domanda al v.26: “Chi dunque può essere salvato?” Gesù, lungi dall’incoraggiarli dicendo: “Dai, forza, ce la farete!”, esaspera ancora di più il problema, dichiarando che non è solo difficile, ma proprio impossibile agli uomini salvarsi! Ma quando si esaurisce la forza umana, subentra la forza di Dio che può ogni cosa: “Le cose impossibili agli uomini sono possibili a Dio”.

La possibilità di comprendere (18:35-43)

35 Com’egli si avvicinava a Gerico, un cieco che sedeva presso la strada, mendicando, 36 udì la folla che passava, e domandò che cosa fosse. 37 Gli fecero sapere che passava Gesù il Nazareno. 38 Allora egli gridò: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!» 39 E quelli che precedevano lo sgridavano perché tacesse; ma lui gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» 40 Gesù, fermatosi, comandò che il cieco fosse condotto a lui; e, quando gli fu vicino, gli domandò: 41 «Che vuoi che io ti faccia?» Egli disse: «Signore, che io ricuperi la vista». 42 E Gesù gli disse: «Ricupera la vista; la tua fede ti ha salvato». 43 Nello stesso momento ricuperò la vista, e lo seguiva glorificando Dio; e tutto il popolo, visto ciò, diede lode a Dio.

Passiamo dunque dall’impossibilità umana alla possibilità divina. Dopo l’incomprensione dei “grandi”, dal capo ricco ai discepoli, uno potrebbe veramente disperarsi. E molti lo fanno, infatti, persino credenti, reputandosi incapaci di capire il vangelo e la parola di Dio, e persi senza qualche aiuto “professionale”. Però, se ascoltiamo attentamente Luca 18, rigetteremo subito quest’idea, in primis perché questi esempi illustrano come neanche i “professionisti” siano una garanzia (è impossibile agli uomini!), e secondo perché Gesù afferma chiaramente che tutto è possibile a Dio!

L’esempio che segue dell’uomo cieco serve come dimostrazione della possibilità divina. Certo, la comprensione di quest’uomo è solo embrionale in questo momento; non ha la conoscenza di un Paolo che scrive la lettera ai Romani. Ma resta il fatto che la sua è una comprensione vera e valida, e Gesù risponde alla sua fede con la guarigione. Importante notare che per lui, Gesù non è solo un “maestro buono”, come per il capo ricco, ma “Figlio di Davide”, ovvero il Messia. In realtà, “Figlio di Davide” è, nel mondo concettuale dell’Antico Testamento, un sinonimo di “Figlio di Dio” (a.es. 2 Samuele 7:12-16).

La profondità della comprensione dell’uomo cieco si manifesta nell’assiduità con cui prega Gesù, gridando sempre più forte nonostante i rimproveri della folla. Se fosse stato un po’ indeciso su chi è Gesù, probabilmente avrebbe smesso di farlo per l’imbarazzo o per la vergogna. Ma siccome riconosce Gesù come “Figlio di Davide” e perciò come “Figlio di Dio”, grida sempre più forte, convinto che Gesù, e solo Gesù, è in grado di liberarlo dalla sua infermità. Da questo, Luca vuole che vediamo la vera possibilità di comprendere Gesù, la giustificazione di quanto Gesù ha detto che mentre agli uomini salvarsi è impossibile, a Dio tutto è possibile. Se il capo ricco e gli stessi discepoli sono un esempio dell’impossibilità umana, l’uomo cieco è un esempio della possibilità divina. Qual è, dunque, la cosa a fare la differenza? La risposta è, come sempre quando si ha a che fare con Gesù, sorprendente.

3. La comprensione dei piccoli (Luca 18:15-17)

15 Portavano a Gesù anche i bambini, perché li toccasse; ma i discepoli, vedendo, li sgridavano. 16 Allora Gesù li chiamò a sé e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me, e non glielo vietate, perché il regno di Dio è per chi assomiglia a loro. 17 In verità vi dico: chiunque non accoglierà il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto».

Il mondo capovolto

Come l’ennesima prova dell’incomprensione dei discepoli, vediamo come essi si oppongano (forse un po’ ironicamente) all’unica possibilità di poter comprendere. Tentano di impedire che i bambini si avvicinino a Gesù, tanto i bambini sono solo un disturbo a un grande come Gesù che ha interessi ben più importanti di cui occuparsi. Non è questo simile all’atteggiamento che a volte abbiamo nei confronti di Dio, quando pensiamo che i nostri problemi possano essere troppo piccoli da interessare al Signore che deve gestire l’intero universo? Tutto ciò deriva proprio dalla stessa incomprensione sulla natura di Dio e del suo regno, che rovescia sempre tutte le nostre aspettative.

Così, i discepoli che sgridavano quelli che portavano i bambini a Gesù si trovano essi stessi sgridati da Gesù proprio perché non hanno ancora capito che “il regno di Dio è per assomiglia a loro”. Come nel regno di Dio i primi sono gli ultimi e gli ultimi i primi (Luca 13:30), e come abbiamo visto nello studio su Luca 14-15, i primi invitati al banchetto del regno sono coloro che se lo meritano di meno, così anche qui Gesù afferma che il suo regno è proprio per i piccoli. Anzi, non è solo che il regno di Dio è prima per i piccoli e poi per i grandi; Gesù va oltre quando asserisce che “chiunque non accoglierà il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto.”

Un contrasto voluto

Questo contrasto tra i piccoli e i grandi non è casuale ma voluto, sia da Gesù sia da Luca che ha strutturato le narrative di questo capitolo in modo ben preciso. Quando leggiamo al v.25 le parole di Gesù che “è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio”, l’intenzione di Luca è che colleghiamo questo a quanto detto prima che “chiunque non accoglierà il regno di Dio come un bambino non vi entrerà affatto”. In entrambi i casi, la posta in gioco è la possibilità di entrare nel regno di Dio, e si mettono al confronto due “vie”, una giusta e l’altra sbagliata, che vi portano. Da questo confronto, dobbiamo concludere che se il capo ricco non è entrato nel regno di Dio, è perché non l’ha accolto come un bambino. Se non ha compreso Gesù, è perché non ha avuto la comprensione di un bambino, quella che aveva invece l’uomo cieco.

È utile ricordare che questa non è la prima volta nel vangelo di Luca dove si evidenzia il contrasto tra la piccolezza dei bambini, da un lato, e l’incomprensione dei grandi dall’altro. Al capitolo 9, l’incomprensione dei discepoli è similmente correlata all’insegnamento di Gesù sui bambini:

9:44 «Voi, tenete bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». 45 Ma essi non capivano queste parole che erano per loro velate, così da risultare incomprensibili, e temevano di interrogarlo su quanto aveva detto. 46 Poi cominciarono a discutere su chi di loro fosse il più grande. 47 Ma Gesù, conosciuto il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo pose accanto e disse loro: 48 «Chi riceve questo bambino nel nome mio, riceve me; e chi riceve me, riceve Colui che mi ha mandato. Perché chi è il più piccolo tra di voi, quello è grande».

Interessante, no? Anche qui, dopo che Luca riporta che i discepoli non capivano la predizione di Gesù della sua morte, riferisce subito come Gesù gli presenta un bambino per insegnargli che “chi è il più piccolo tra di voi, quello è grande”. Poi, al capitolo 10, Gesù rivela il filo conduttore che lega insieme tutto questo discorso:

10:21 In quella stessa ora, Gesù, mosso dallo Spirito Santo, esultò e disse: «Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli! Sì, Padre, perché così ti è piaciuto! 22 Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio; e nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre; né chi è il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo».

Chi cerca di entrare nel regno di Dio da “grande” — come il capo ricco e i discepoli a questo punto — non lo comprenderà, mentre quelli che lo ricevono da “piccoli”, lo comprenderanno e vi entreranno. Ma questo non è perché, in qualche strano modo, i piccoli sono più intelligenti dei grandi, come se dipendesse sempre da qualche caratteristica umana. No, il punto è che solo i piccoli comprendono e ricevono il regno di Dio perché è solo a loro che Dio ha voluto rivelarlo! Se comprendere il vangelo del regno è impossibile agli uomini e possibile solo a Dio, vuol dire che “nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre; né chi è il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo”. Ed è stato il piacere di Dio di nascondere il regno “ai sapienti e agli intelligenti”, ossia ai “grandi”, e di rivelarlo invece ai “piccoli”, esemplificati dai bambini.

Se, dunque, comprendere ed entrare nel regno di Dio richiede che uno lo accolga “come un bambino”, noi che siamo “grandi” dobbiamo diventare “piccoli”. Ma che cosa vuol dire diventare piccoli, e come si fa? La risposta è qui, sempre in Luca 18.

Diventare piccoli

Sono varie le ipotesi su cosa significa “accogliere il regno di Dio come un bambino”, di solito derivate da esperienze personali che uno ha avuto nei confronti dei bambini. Il problema con quest’approccio, tuttavia, è che le conclusioni differiscono in base alle proprie esperienze: per alcune persone, bambini sono carini e innocenti, mentre per altre sono sporchi e fastidiosi. Per capire bene quello che Gesù volevo effettivamente dire, bisogna lasciare che il testo biblico lo spieghi.

Abbiamo già notato che Luca contrappone “accogliere il regno di Dio come un bambino” alla difficoltà “per quelli che hanno delle ricchezze di entrare nel regno di Dio”. Il significato del primo si rivela nel contrasto con il secondo. Che cosa impedisce ai ricchi di entrare nel regno? Possiamo metterla così: i ricchi non possono ricevere il regno perché hanno già le mani piene di cose! I bambini, d’altro canto, possono ricevere il regno perché hanno le mani vuote; dipendono per tutto dai genitori. In questo senso bisogna diventare come un bambino, proprio come Gesù ha detto al capo ricco di vendere i suoi beni, affinché avesse così le mani vuote per poter ricevere ciò che Gesù voleva dargli. In realtà, il capo ricco era già pieno anche in un altro senso: credeva di aver soddisfatto i requisiti della legge. Quindi, nel rinunciare ai suoi beni, doveva anche rinunciare alla propria giustizia da cui dipendeva per entrare nel regno di Dio.

Per contro, l’uomo cieco era come un bambino in quanto ha espresso la dipendenza totale e fiduciosa da Gesù. Sapeva di non poter guarire se stesso, di essere impotente e bisognoso, e come un bambino, dunque, non ha smesso di chiedere finché non ha ricevuto da Gesù la guarigione. Il bambino insiste perché sa di avere bisogno ma di essere incapace di soddisfare il proprio bisogno, e quindi si rivolge al proprio genitore a mani vuote. Così ha fatto l’uomo cieco, esattamente come un bambino. Questo è cosa significa vivere di grazia, non di opere.

Tutto questo spiega come dobbiamo (e possiamo) comprendere la parola di Dio. Comprendere come un bambino vuol dire ricevere “a mente vuota”, essere ingenui nei confronti della parola. Spesso non è che non comprendiamo la parola, ma piuttosto ciò che comprendiamo si scontra con ciò che pensiamo. Questo è stato il problema dei discepoli. Non è che non siano riusciti a capire il senso delle parole che Gesù usava circa la sua morte e la sua risurrezione; non sono riusciti a far quadrare le parole di Gesù con ciò che credevano già riguardo al destino del Messia. Come il capo ricco con tutti i suoi tesori, avevano già le menti piene di idee su chi fosse e cosa dovesse fare il Messia. Anziché semplicemente ricevere “a mente vuota” l’insegnamento di Gesù, hanno provato a farlo combaciare con i loro schemi mentali preesistenti. Non erano “ingenui” nei confronti della parola; non volevano semplicemente ricevere ciò che Gesù diceva senza metterlo in discussione e in dubbio.

Comprendere la parola di Dio come bambini non significa, dunque, essere stupidi o rimanere semplici nel nostro pensare. Maturare nella fede richiede una sempre più profonda conoscenza della parola. Ma questa conoscenza cresce nella misura in cui rinunciamo alle idee che abbiamo già e riceviamo semplicemente quello che la parola ci dà. In questo modo, dipendiamo dalla grazia di Dio non solo per quanto riguarda la nostra salvezza, ma anche per quanto riguarda la nostra comprensione della parola e la nostra maturazione nella fede.

4. Conclusione

In questo capitolo di Luca, i discepoli non hanno fatto una bella figura, e li abbiamo visti, in gran parte, come esempio negativo. Ma l’immagine dei discepoli non è del tutto negativa, e mentre del capo ricco non se ne vede più traccia, i discepoli alla fine comprendono le parole di Gesù e non solo: diventano i testimoni apostolici i cui insegnamenti costituiscono tuttora le fondamenta della fede cristiana. La differenza principale tra i discepoli e il capo ricco si manifesta ai vv.28-31, che adesso consideriamo per concludere.

28 Pietro disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato le nostre cose e ti abbiamo seguito». 29 Ed egli disse loro: «Vi dico in verità che non c’è nessuno che abbia lasciato casa, o moglie, o fratelli, o genitori, o figli per amor del regno di Dio, 30 il quale non ne riceva molte volte tanto in questo tempo, e nell’età futura la vita eterna». 31 Poi, prese con sé i dodici, e disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme…

Per tutti i loro fallimenti, i discepoli si sono distinti dal capo ricco in questo senso: hanno scelto di rinunciare a tutto e di seguire Gesù. E anche quando, al v.31, Gesù ha cominciato a predire ciò che gli sarebbe successo, i discepoli, pur non comprendendo, sono saliti comunque con Gesù a Gerusalemme. Questo è la caratteristica del vero discepolo: non che capisca tutto, ma che continua a seguire Gesù anche quando (e forse soprattutto quando!) non capisce.

Questa è la vera fede, che non deve avere sempre la certezza di ciò che crede, che non deve comprendere fino in fondo ogni tema biblico o organizzare un esauriente sistema teologico. Certo, non smette mai di imparare, di cercare, di meditare, di approfondire. Ma sa convivere con la tensione e il dubbio, sapendo che non è giustificata dalle proprie capacità di comprendere ma da quelle di chi è il suo autore e che la rende perfetta.

Come sappiamo di essere salvati non dalla nostra ubbidienza ma dall’ubbidienza di Gesù al nostro posto (che si chiama l’ubbidienza vicaria di Gesù), e come sappiamo che persino la fede di Gesù è vicaria (così che quando la nostra fede è debole, dipendiamo da quella di Gesù che è sempre forte), così sappiamo che quando non capiamo, Gesù capisce per noi. Possiamo chiamarla la sua “conoscenza vicaria”. Io non capisco tutto, ma Gesù capisce per me, in quello posso trovare riposo. Quanto è grande il nostro Salvatore, che in tutto e per tutto egli è tutto ciò di cui abbiamo bisogno! Uniti a lui, possiamo essere veramente come dei bambini — a mani vuote e anche a menti vuote — sapendo che il nostro Padre celeste si prende cura di noi, e nella sua presenza, nulla ci manca.

Amen!

Luca 14-15: A tavola con Gesù

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1. Introduzione

Incontrare Gesù significa venire in giudizio. Gesù è, come afferma Giovanni 1:9, la luce del mondo che illumina ogni uomo. Quando, dunque, uno incontra Gesù, viene messo alla luce che espone tutto, dalla quale nulla può fuggire. Ciò che di solito rimane nascosto nel profondo del cuore viene a galla in modo inevitabile e innegabile. Questo è il motivo per cui Gesù suscita reazioni estreme e, a volte, violente. L’essere umano non vuole, in genere, che i propri segreti vengano svelati, i quali cerca di celare con multipli strati di inganno e di falsità. Ma come un fragile abito di foglie di fico, quegli strati vengono strappati via alla presenza di Gesù, e tutta la verità della persona è rivelata per ciò che veramente è.

Ora, questo è in fondo qualcosa di positivo, di salutare, come la lastra che permette al medico di diagnosticare accuratamente un osso fratturato. Il giudizio non è uguale alla condanna (anche se può condurre alla condanna) ma di per sé mira a riportare al giusto quello che è sbagliato. Come la malattia che causa sempre più danni finché continua a esistere, così è il peccato che causa il nostro allontanamento da Dio e, di conseguenza, la morte. Il giudizio di Dio è cosa buona proprio perché, nel “diagnosticare” il male che ci affligge, ci indica anche il rimedio che ci può risanare. Il problema, però, è che il nostro male ha talmente distorto le nostre percezioni che non lo consideriamo un male ma un bene. Il male ci ha talmente accecato che chiamiamo le tenebre luce e la luce tenebre. Così dichiara Giovanni 3:19-20:

19 Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più della luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano scoperte.

Ecco perché quando la luce del mondo è venuta nel mondo, il mondo non l’ha ricevuta ma invece ha tentato di spegnerla con rabbia e con violenza. Questo, a un livello, è il motivo per cui Gesù è finito sulla croce; il mondo amava troppo le tenebre, e non poteva tollerare la luce che le dissipava. Così è anche oggi, perché quando il vangelo di Gesù viene annunciato, la stessa luce risplende di nuovo e provoca, da parte delle tenebre, le stesse reazioni di odio e di ostilità. Mentre è vero che ci sarà il giudizio finale di tutta l’umanità — su questo la Bibbia non è ambigua — è anche vero che una specie di anteprima del giudizio finale avviene sempre quando il nome di Gesù viene pronunciato in quanto le reazioni che esso incita anticipano quale sarà quell’ultimo verdetto.

La cosa sorprendente, però, è che nel vangelo — e questo è particolarmente evidente nel vangelo secondo Luca — il giudizio arriva in forme inaspettate. Non è come lo immaginiamo, per esempio, dipinto nel famoso quadro di Michelangelo nella Cappella Sistina, con il Giudice divino dal volto pacato o severo e apparentemente senza pietà e misericordia. In Luca, piuttosto, il giudizio ha luogo nel più paradossale dei contesti: la convivialità di un banchetto. Nel suo ministero, Gesù fa del pasto un assaggio del regno di Dio; come una persona si comporta al pasto, dunque, rivela la sua posizione relativa al regno. Questo si verifica a vari punti nel vangelo ma forse nel modo più concentrato ai capitoli 14-15, culminando nella famosa parabola del figlio prodigo.

2. Il giudizio del convito (Luca 14)

Il tutto incomincia al v.1 di Luca 14 quando:

1 Gesù entrò di sabato in casa di uno dei principali farisei per prendere cibo, ed essi lo stavano osservando, 2 quando si presentò davanti a lui un idropico.

Notiamo bene il contesto: il giorno di sabato (come in altre occasioni) per prendere cibo. È un pasto, in altre parole, e non nella sinagoga. Questo è importante, perché lì è presente anche un uomo idropico che certamente, a causa della sua malattia, non è in grado di godersi il pasto come gli altri invitati. Come altre volte nel vangelo, la guarigione da Gesù operata provoca una reazione negativa nei farisei (anche se velata dal loro non poter rispondere nulla), perché a loro sembra che Gesù stia violando la legge del sabato.

A questo punto, Gesù racconta una serie di parabole che occuperà il resto dei capitoli 14 e 15, tutte accomunate dal tema del pasto. Benché non tutte identiche, tutte le parabole dimostrano il “giudizio” imprevisto che avviene proprio in questa situazione. Potremmo forse chiamarlo “il giudizio della gioia” in confronto alla solita idea che abbiamo del giudizio, quale austero e pesante. In queste parabole, non è il classico giudice duro e implacabile che si incontra quanto un oste accogliente e generoso. Lo shock di queste parabole è che non è una sentenza legale che distingue fra i vari tipi di persone, ma un invito alla gioia.

Il giudizio del cuore (Luca 14:7-14)

7 Notando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola: 8 «Quando sarai invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, 9 e chi ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedi il posto a questo!” e tu debba con tua vergogna andare allora a occupare l’ultimo posto. 10 Ma quando sarai invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, affinché quando verrà colui che ti ha invitato, ti dica: “Amico, vieni più avanti”. Allora ne avrai onore davanti a tutti quelli che saranno a tavola con te. 11 Poiché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato».

12 Diceva pure a colui che lo aveva invitato: «Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i vicini ricchi; perché essi potrebbero a loro volta invitare te, e così ti sarebbe reso il contraccambio; 13 ma quando fai un convito, chiama poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato, perché non hanno modo di contraccambiare; infatti il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti».

La prima parabola deriva dall’osservazione di Gesù che gli invitati cercavano di procurarsi i posti di più onore al convito, probabilmente quelli vicino all’oste. La parabola non è tanto un consiglio di come comportarsi bene a tavola quanto un faro puntato sull’orgoglio del cuore umano, anche di quelli che, come i farisei e i dottori della legge, erano reputati i più pii di tutti. Come uno si comporta a tavola, Gesù asserisce, è un segno della condizione del cuore e un’anteprima del giudizio che un giorno sarà loro dichiarato. Questi che cercano di innalzarsi saranno abbassati, saranno umiliati nell’ordine che Dio stabilisce, mentre quelli che sono umili — dimostrato sempre da come si comportano a tavola — saranno onorati veramente. La scelta del posto a tavola può sembrare una cosa banale — e in un certo senso lo è — ma Gesù sostiene che sono le cose banali che spesso rivelano la verità delle cose profonde.

La lezione della parabola non si limita solo all’umiltà, ma all’intero orientamento che uno ha nella vita. Ecco i cosiddetti “giusti” che non solo facevano a gara per prendere i posti migliori, ma erano più preoccupati di ciò e meno interessati all’uomo idropico! Non dimentichiamoci di questo fatto, che a questo convito c’era anche l’idropico a cui i farisei pensavano solo quando Gesù ha “violato” il sabato per guarirlo! Essi erano talmente impegnati nel cercare i propri interessi — nel mantenere la loro presunta fedeltà alla legge di Dio e nell’usare il convito come occasione per innalzare la loro posizione sociale — che ignoravano totalmente i bisogni di un malato che stava con loro nella stessa stanza!

Ecco perché Gesù insiste che alla propria mensa bisogna invitare quelli che “non hanno modo di contraccambiare”, come i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi (ma certamente non limitati a essi!). Gesù dice questo non solo perché è una cosa buona da fare, ma sempre perché rivela la condizione del cuore, se uno vive principalmente per sé stesso o per gli altri. Come Gesù spiegherà al 22:26-27 di Luca, nel regno di Dio i più grandi sono i servi, non i serviti:

26 Ma per voi non dev’essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve. 27 Perché, chi è più grande, colui che è a tavola oppure colui che serve? Non è forse colui che è a tavola? Ma io sono in mezzo a voi come colui che serve.

Questo è come, secondo Gesù, avviene il giudizio del cuore umano a tavola in un contesto conviviale. Se il regno di Dio è caratterizzato dal servizio, coloro che usano l’assaggio del regno come occasione per promuovere i propri interessi se ne giudicano indegni.

Il giudizio delle priorità (Luca 14:15-35)

15 Uno degli invitati, udite queste cose, gli disse: «Beato chi mangerà pane nel regno di Dio!» 16 Gesù gli disse: «Un uomo preparò una gran cena e invitò molti; 17 e all’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: “Venite, perché tutto è già pronto”. 18 Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: “Ho comprato un campo e ho necessità di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi”. 19 Un altro disse: “Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi”. 20 Un altro disse: “Ho preso moglie, e perciò non posso venire”. 21 Il servo tornò e riferì queste cose al suo signore. Allora il padrone di casa si adirò e disse al suo servo: “Va’ presto per le piazze e per le vie della città, e conduci qua poveri, storpi, ciechi e zoppi”. 22 Poi il servo disse: “Signore, si è fatto come hai comandato e c’è ancora posto”. 23 Il signore disse al servo: “Va’ fuori per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, affinché la mia casa sia piena. 24 Perché io vi dico che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati, assaggerà la mia cena”».

La seconda parabola raccontata da Gesù costituisce la sua riposta a uno degli invitati che (forse volendo fare il super-spirituale!) dice: “Beato chi mangerà pane nel regno di Dio”. È vero questo, ma Gesù vuole avvertirlo (e tutti noi!) contro la presunzione che a volte accompagna l’idea di essere inclusi tra gli eredi del regno di Dio. “Attenzione”, Gesù dice, “voi che pensate di essere tra coloro che mangeranno il pane nel regno di Dio se trascurate la chiamata dell’oste!” Questo pericolo era grave, perché l’oste era lì, nella presenza di molti che, anziché riconoscere e seguire Gesù come Signore, lo criticavano e lo accusavano di, per esempio, aver trasgredito la legge del sabato!

Nella parabola, l’oste manda gli inviti per un gran convito, ma tutti gli invitati “insieme cominciarono a scusarsi”. La cosa importante da notare è che le scuse sono tutte valide: uno ha comprato un campo e deve vederlo, un altro ha comprato buoi e deve provarli, un altro ancora si è sposato e deve badare alla moglie. Nei primi due casi, le ragioni sono legate al lavoro, nel terzo alla famiglia. Tutte e tre le situazioni, dunque, sono elementi fondamentali della vita, e gli invitati avrebbero perciò motivi importanti per non venire alla cena. Ma il punto di Gesù è proprio questo: quando egli è l’oste, ed è sua la cena a cui uno è invitato, non c’è scusante valida per rifiutare. Questo si collega a quello che Gesù insegnerà ai vv.25-35 relativo al discepolato:

26 «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. 27 E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo…. 33 Così dunque ognuno di voi, che non rinuncia a tutto quello che ha, non può essere mio discepolo.

La chiamata di Gesù sovrasta ogni altro obbligo o impegno o desiderio della vita; essa deve essere la priorità assoluta di ogni suo discepolo. Quando Gesù chiama, la risposta deve essere immediata e risoluta, di lasciare ogni altra cosa senza esitare o trattare e di ubbidire pienamente alla sua volontà. Nemmeno le proprie responsabilità di lavoro e di famiglia sono sacrosante in confronto a quelle dovute al Signore.

Attenzione però: l’immagine della parabola non è la vocazione alla vita ascetica o al sacrificio eroico ma al gran banchetto! È possibile che le pratiche ascetiche, come il digiuno, o i sacrifici possano eventualmente far parte della chiamata del discepolo, ma lo scopo finale è sempre quello di godere della mensa abbondante di Dio! Al centro di tutte queste parabole, nonché le pratiche di Gesù stesso, c’è una festa in cui l’oste vuole condividere l’abbondanza dei suoi beni e della sua gioia al massimo numero di persone possibile. Dobbiamo parlare della croce, sì, ma non dobbiamo mai dimenticare che la croce conduce alla risurrezione, al banchetto eterno al quale siamo tutti invitati. E la maniera in cui rispondiamo all’invito di Dio alla sua mensa è giudizio sufficiente, senza ricorrere ad immagini del giudice seduto al banco che con viso severo pronuncia sentenze prive di pietà. Siamo invitati alla festa, e se ci scusiamo — anche per ragioni altrimenti valide — ci escludiamo da soli dai veri e propri ben di Dio!

3. Figlio o servo? (Luca 15)

Ora, vorrei dedicare ciò che rimane di questo studio a un pericolo particolarmente insidioso che Gesù rileva nella cosiddetta “parabola del figlio prodigo”. È particolarmente insidioso perché i più vulnerabili sono quelli che hanno risposto di sì all’invito di Gesù, che, nonostante i loro continui fallimenti e imperfezioni, dimostrano il loro impegno nel seguire Gesù e nel sottomettere ogni aspetto della loro vita a lui. Il pericolo è questo: di dimenticare la grazia e vivere non come figli ma come schiavi nella casa del loro Padre celeste. Consideriamo adesso le parabole di Luca 15.

 Il grande ritrovamento (Luca 15:1-24)

15:1 Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. 2 Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed egli disse loro questa parabola: 4 «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? 5 E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; 6 e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta”. 7 Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.

8 «Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? 9 Quando l’ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta”. 10 Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede».

11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane di loro disse al padre: “Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta”. Ed egli divise fra loro i beni. 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una gran carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali. 16 Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava. 17 Allora, rientrato in sé, disse: “Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi'”.

20 Egli dunque si alzò e tornò da suo padre. Ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione; corse, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 E il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22 Ma il padre disse ai suoi servi: “Presto, portate qui la veste più bella e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; 23 portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. E si misero a fare gran festa.

Tutte e tre le parabole vanno esaminate insieme, perché insieme costituiscono la risposta di Gesù ai farisei e agli scribi che “mormoravano, dicendo: ‘Costui accoglie i peccatori e mangia con loro’”. Non dobbiamo lasciarci sfuggire che, di nuovo, la loro reazione è provocata dal fatto che Gesù mangi con i peccatori, rinforzando il tema centrale del giudizio del pasto. Le tre parabole che Gesù racconta sono accomunate da vari elementi ma poi distinte da una differenza importante. In tutte e tre, viene perso qualcosa di molto prezioso — una pecora, una moneta (probabilmente equivalente alla paga giornaliera) e un figlio. In tutte e tre, la cosa persa viene ritrovata. Nella terza, ovviamente, è il figlio che si pente e torna dal padre, ma il risultato è lo stesso. Poi, in tutte e tre, si fa una grande festa per l’immensa gioia di aver ritrovato ciò che era perso.

Fino a questo punto, le tre parabole seguono lo stesso filo narrativo, culminando (come anche nelle altre parabole raccontate da Gesù in questi capitoli) in un convito a cui tutti sono invitati per condividere la gioia dell’oste. La terza parabola, però, non finisce qui come le prime due, e questa differenza è in realtà il messaggio principale che Gesù vuole trasmettere ai farisei.

Il giudizio del figlio maggiore (Luca 15:25-32)

25 Or il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze. 26 Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedesse. 27 Quello gli disse: “È tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28 Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. 29 Ma egli rispose al padre: “Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; 30 ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”. 31 Il padre gli disse: “Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”».

Nella terza parabola, il padre del figlio perso e ritrovato ha ancora un altro figlio più grande, il quale non ha combinato i guai del minore, ma è sempre rimasto a casa del padre e, secondo ciò che dice, non ha mai trasgredito uno dei comandi del padre. È sempre stato il figlio ubbidiente e rispettoso, a differenza dell’altro che ha sperperato tutti i suoi soldi dopo aver effettivamente detto al padre che preferiva il padre fosse morte per poter ricevere l’eredità. Quando, dunque, sente la musica e la danza della festa, e ne chiede a un servo il motivo, rimane scandalizzato che si festeggi il ritorno di suo fratello: “a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”. Nei suoi panni, anche noi probabilmente ci saremmo lamentati nello stesso modo!

Ora, il punto della parabola è abbastanza evidente. I farisei e gli scribi sono come il fratello maggiore, scandalizzati da come Gesù “fa festa” per la gioia di ritrovare i peccatori con cui egli mangia. Anziché criticare Gesù, essi dovrebbero invece unirsi alla festa quando vedono che ‘questi loro fratelli che erano morti sono tornati in vita, erano perduti e sono stati ritrovati’. Vorrei però focalizzarmi su ciò che collega il finale della parabola con tutto quello che abbiamo visto finora, ovvero come la festa è, per il figlio maggiore, l’occasione del giudizio in quanto rivela la sua vera condizione.

Innanzitutto, notiamo l’inversione paradossale dei due figli. Il minore pensa di dover tornare a casa come servo, avendo perso ogni diritto di essere chiamato figlio. Quando arriva, però, il padre non gli permette neanche di finire il suo appello; prima che il figlio possa dire: “trattami come uno dei tuoi servi”, il padre dà ordini che si festeggi il ritorno di suo figlio in quanto tale. Il figlio maggiore, invece, si arrabbia con il padre dicendogli: “Ecco, da tanti anni ti servo…”, anche se, come gli ricorda il padre, “Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua”. Strano, no? Il minore crede di dover tornare a casa come servo, ma viene accolto come figlio. Il maggiore è sempre stato il figlio del padre, avendo tutti i diritti come primogenito, eppure si comporta come un servo, pensando di dover lavorare per il padre per ricevere almeno un capretto per far festa con i suoi amici!

Notiamo, inoltre, che la prospettiva e il comportamento servili del figlio maggiore si manifestano in un’occasione di festa. Fino a questo punto, egli sarebbe apparso come il figlio ideale, serio e disciplinato. Ma giunto il momento per festeggiare il ritorno di suo fratello, si è fatta vedere la sua vera natura. La sua ubbidienza è risultata non motivata dall’amore verso il padre, ma dai suoi interessi egoisti. È emerso che egli considerava il suo rapporto con il padre non veramente come uno di figlio e padre ma di servo e padrone. Credeva di doversi guadagnare i beni del padre anziché ereditarli come suo diritto. Non viveva, insomma, di grazia ma di opere. E tutto questo si è rivelato, come già detto, in un momento di festa.

Questo è il pericolo dal quale tutti coloro che si reputano figli di Dio devono guardarsi, proprio perché minaccia soltanto quelli che, come il figlio maggiore, vivono nella casa di Dio. Il rischio è che i figli comincino a trattare il loro rapporto con Dio non più come uno basato sulla grazia ma sulle opere, di trattare Dio come Padrone celeste e non come Padre celeste. La difficoltà è che questo cambiamento può avvenire in maniera impercettibile, così che dall’esterno, essi continuano ad apparire come figli devoti! Probabilmente, nemmeno loro si rendono conto di essere cascati nella trappola, auto-ingannandosi che si comportano esattamente come devono!

Questo si può manifestare in tanti modi, ma quello che le parabole di Luca 14-15 evidenziano è la nostra capacità di festeggiare. Quando si pensa alla spiritualità o alla religione, festeggiare non è la prima cosa che solitamente viene in mente. Ma se siamo figli di Dio, abbiamo veramente ragioni infinite per rallegrarci e per far festa, come dice il padre del figlio prodigo. Noi che eravamo persi, siamo stati ritrovati. Noi che eravamo morti, siamo tornati in vita. Alleluia!

4. Conclusione

Come Gesù insegna in queste parabole, è proprio a tavola, mangiando e bevendo insieme, che veniamo in giudizio, che si manifesta la vera condizione del nostro rapporto con Dio. Questo è perché a tavola assaggiamo il regno di Dio insieme ai nostri fratelli e le nostre sorelle in Cristo, e la maniera in cui ci comportiamo in questi contesti indica, dunque, la nostra posizione relativa al regno. Se siamo figli di Dio e membri della sua famiglia, a tavola ci tratteremo a vicenda con amore e con rispetto nonostante le differenze o le difficoltà che ci sono tra persone riunite. Se c’è uno che soffre, quello non verrà ignorato mentre gli altri badano solo ai propri interessi. Non tratteremo la tavola come occasione per ricevere ma per benedire altri generosamente con quello che Dio ci ha dato.

In più, provvederemo a fare spazio nelle nostre routine per mangiare con i membri della chiesa, perché è in quel contesto che ci raduniamo attorno all’oste Gesù per assaggiare il suo regno a venire. Una chiesa che non mangia insieme a tavola sta forse trascurando l’invito di Gesù che deve essere più importante di ogni altro dovere o impegno. Credenti che sono troppo impegnati per fermarsi a festeggiare con i loro fratelli devono chiedersi se assomigliano più al figlio maggiore che neanche lui era disposto a smettere di lavorare e unirsi alla festa. Non è a caso che, nella parabola, il figlio maggiore stava ancora lavorando nei campi mentre dentro la casa si festeggiava il ritorno del figlio minore, e per questo ha dovuto chiedere a uno dei servi che cosa succedesse!

Se per noi passare tempo con la famiglia di Dio — non solo nei culti formali ma anche in momenti conviviali — non è una priorità, c’è da chiedere se stiamo pensando da figli del Padre o da servi del padrone. Se siamo figli che non devono guadagnarsi i beni del Padre ma possono goderseli in quanto figli, non dobbiamo essere talmente impegnati da non poter smettere di lavorare, di fare, di correre qua e la e dappertutto, per poter semplicemente stare insieme con gli altri membri della famiglia di Dio per mangiare, per bere, per ridere, per festeggiare un piccolo assaggio del regno di Dio! Ha senso se ci reputiamo eredi del regno, ma poi non prendiamo il tempo necessario per assaggiarlo? Veramente, il modo in cui festeggiamo è una, anche se non l’unica, indicazione della condizione dei nostri cuori.

Che Dio, dunque, ci riempia di una gioia talmente incontenibile per il fatto che siamo suoi figli ed eredi con suo Figlio Gesù Cristo che non possiamo far altro che festeggiare! Amen!

Luca 5-6: Il vino nuovo e gli otri vecchi

Gustave_Dore_-_Jesus_and_His_Disciples_in_the_Corn_Field_illustration_from_Dores_The_Holy_Bible_-_(MeisterDrucke-83352).jpgLuca 5:1-6:11

1. Introduzione: La Scrittura adempiuta

5:1 Mentre egli stava in piedi sulla riva del lago di Gennesaret e la folla si stringeva intorno a lui per udire la parola di Dio, 2 Gesù vide due barche ferme a riva: da esse i pescatori erano smontati e lavavano le reti. 3 Montato su una di quelle barche, che era di Simone, lo pregò di scostarsi un poco da terra; poi, sedutosi sulla barca, insegnava alla folla. 4 Come ebbe terminato di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo, e gettate le reti per pescare». 5 Simone gli rispose: «Maestro, tutta la notte ci siamo affaticati, e non abbiamo preso nulla; però, secondo la tua parola, getterò le reti». 6 E, fatto così, presero una tal quantità di pesci, che le reti si rompevano. 7 Allora fecero segno ai loro compagni dell’altra barca, di venire ad aiutarli. Quelli vennero e riempirono tutt’e due le barche, tanto che affondavano. 8 Simon Pietro, veduto ciò, si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9 Perché spavento aveva colto lui, e tutti quelli che erano con lui, per la quantità di pesci che avevano presi, 10 e così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Allora Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11 Ed essi, tratte le barche a terra, lasciarono ogni cosa e lo seguirono.

Sin dall’inizio del vangelo di Luca, il tema dell’adempimento è predominante. Ciò che Giovanni il battista nasce per preannunciare, e ciò che Gesù nasce per compiere, è l’adempimento di tutta quanta la Scrittura, come infatti Gesù, al capitolo 4, predica nella sinagoga di Nazaret. Non dobbiamo intendere questo adempimento della Scrittura, però, in un senso strettamente religioso o etnico, come se fosse limitato agli ebrei del primo secolo e perciò di poco rilevanza a noi moderni. Quello che la Scrittura ha sempre promesso — e in primis nel profeta Isaia, non a caso citato da Gesù nel suddetto episodio — vale non solo per gli ebrei ma soprattutto attraverso gli ebrei per tutto il mondo. Come un piccolo sasso gettato nell’acqua fa increspare la superficie e crea una serie di cerchi che si fanno sempre più grandi, così ciò che fa un solo uomo in un angolino di poco conto nell’impero romano avrà degli effetti rivoluzionari su tutti gli esseri umani in tutti i luoghi e tutti i tempi.

Anche se non sembra, la chiamata dei primi discepoli di Gesù — qui narrata nei versetti iniziali di Luca 5 — segna l’inizio di questa rivoluzione. Dobbiamo riflettere sulle parole di Gesù riportate al v.10 tenendo conto del tema dell’adempimento che abbiamo appena sottolineato. Da un lato, è facile indovinare perché in questo contesto Gesù abbia formulato la chiamata al discepolato in termini della pesca: si rivolgeva a pescatori! Ma vi è un altro motivo, più importante ancora, che deriva dalle Scritture stesse. Nel profeta Geremia, il quale portava la parola di Dio agli abitanti di Gerusalemme mentre la città veniva assediata dai babilonesi, il Signore aveva promesso che gli stessi figli d’Israele che egli aveva scacciato dalla loro terra:

15 …Io li ricondurrò nel loro paese, che avevo dato ai loro padri. 16 Ecco, io mando un gran numero di pescatori a pescarli», dice il SIGNORE…” (Geremia 16).

In altre parole, quando sarebbe arrivata la fine del periodo di giudizio, ovvero l’esilio, Dio avrebbe “pescato” il suo popolo dalle nazioni per ricondurli di nuovo nella terra promessa, dove essi, finalmente perdonati e purificati dai loro peccati, lo avrebbero servito in verità e in santità. E questo, inoltre, sarebbe servito come segno a tutte le nazioni dalle quali Israele era stato “pescato” che era giunto anche il tempo della salvezza universale in cui tutte le famiglie della terra sarebbero state benedette per mezzo dei discendenti di Abraamo. Tutto ciò è implicito nella semplice dichiarazione di Gesù a Simon Pietro che “d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Per citare ancora Gesù nella sinagoga di Nazaret: “Oggi, si è adempiuta questa Scrittura” (Luca 4:21).

Ora, ciò che segue nel capitolo 5 e all’inizio del capitolo 6 sviluppa questo tema attraverso una serie di scene che mette a confronto l’adempimento con le sue prefigurazioni, il nuovo con il vecchio. Questo Gesù riassume al 5:36-39 con una parabola:

36 Disse loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo a un vestito vecchio; altrimenti strappa il nuovo, e il pezzo tolto dal nuovo non si adatta al vecchio. 37 Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo fa scoppiare gli otri, il vino si spande, e gli otri vanno perduti. 38 Ma il vino nuovo va messo in otri nuovi. 39 E nessuno, che abbia bevuto vino vecchio, ne desidera del nuovo, perché dice: “Il vecchio è buono”».

Questa parabola — in particolare quella del vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi — la prendiamo come argomento principale di questa porzione del vangelo e dello studio di oggi. Per approfondire quello che Gesù voleva dire con questa parabola, dobbiamo considerare le storie circostanti che fungono da “panino” narrativo.

2. Il vino nuovo (Luca 5:12-26)

 Le prime due storie, che costituiscono la prima “fetta di pane” di questo “panino” narrativo, illustrano in particolare il “vino nuovo” dell’opera di Gesù.

 La nuova purificazione (5:12-16)

 12 Mentre egli si trovava in una di quelle città, ecco un uomo tutto coperto di lebbra, il quale, veduto Gesù, si gettò con la faccia a terra e lo pregò dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi». 13 Ed egli stese la mano e lo toccò, dicendo: «Lo voglio, sii purificato». In quell’istante la lebbra sparì da lui. 14 Poi Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno. «Ma va’», gli disse, «mòstrati al sacerdote e offri per la tua purificazione ciò che Mosè ha prescritto; e ciò serva loro di testimonianza». 15 Però la fama di lui si spandeva sempre più; e moltissima gente si radunava per udirlo ed essere guarita dalle sue infermità. 16 Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.

 All’epoca di Gesù, la lebbra era una maledizione mortale temuta da tutti. Era una malattia incurabile, e quindi costituiva in effetti una sentenza di morte certa. Ma non solo: prima di uccidere la vittima, la strappava dalla società perché la rendeva impura e pericolosa. La toglieva da tutti i rapport umani, infatti da ogni contatto umano, e perciò causava una forma di morte psicologica ancora prima di causare la morte fisica.

Poiché la lebbra presentava una così grande minaccia alla comunità, la legge ebraica stabiliva delle rigide norme per prevenirne la diffusione. Senza medici, il compito di esaminare e diagnosticare un eventuale caso di lebbra toccava al sacerdote, il quale doveva dichiararlo o puro o impuro. Il sacerdote non aveva il potere di guarire, solo di fare il punto della situazione. Se per qualche motivo la lebbra guariva da solo, egli poteva riammettere l’ex-ammalato alla comunità. Ma questo era il meglio che poteva fare.

Dunque, ciò che colpisce subito in questa storia – ciò di cui Gesù vuole fare una testimonianza ai sacerdoti – è come egli compie quello di cui la legge e il sacerdote erano incapaci. Simile al peccato, essi potevano identificare il problema, ma non potevano risolverlo. Gesù, invece, stende la mano e tocca il lebbroso (gesto che lo dovrebbe rendere impuro) e lo guarisce, in effetti “infettando” il lebbroso dal “contagio” della purezza. Questo è il nuovo assoluto del regno di Dio in Cristo che ribalta il normale e irreversibile andamento della malattia e della morte, e compie ciò che al vecchio era impossibile.

Il nuovo tempio (5:17-26)

17 Un giorno Gesù stava insegnando; e c’erano, là seduti, dei farisei e dei dottori della legge, venuti da tutti i villaggi della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme; e la potenza del Signore era con lui per compiere guarigioni. 18 Ed ecco degli uomini che portavano sopra un letto un uomo che era paralizzato, e cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19 Non trovando modo d’introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e, fatta un’apertura fra le tegole, lo calarono giù con il suo lettuccio, in mezzo alla gente, davanti a Gesù. 20 Ed egli, veduta la loro fede, disse: «Uomo, i tuoi peccati ti sono perdonati». 21 Allora gli scribi e i farisei cominciarono a ragionare, dicendo: «Chi è costui che bestemmia? Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?» 22 Ma Gesù, conosciuti i loro pensieri, disse loro: «Che cosa pensate nei vostri cuori? 23 Che cosa è più facile, dire: “I tuoi peccati ti sono perdonati”, oppure dire: “Àlzati e cammina”? 24 Ora, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di perdonare i peccati, io ti dico», disse all’uomo paralizzato, «àlzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua». 25 E subito egli si alzò in loro presenza, prese il suo giaciglio e se ne andò a casa sua, glorificando Dio. 26 Tutti furono presi da stupore e glorificavano Dio; e, pieni di spavento, dicevano: «Oggi abbiamo visto cose straordinarie».

La seconda storia di questa serie è simile in quanto presenta un altro miracolo di guarigione, ma il significato è ampliato in modo da comprendere quello che nella prima era implicito. Qui vediamo un uomo paralizzato, la cui unica speranza è Gesù ma che non è in grado di raggiungerlo a causa della sua infermità. I suoi compagni lo aiutano, dunque, e trovano un modo per farlo arrivare proprio davanti a Gesù, il quale lo guarisce, sì, ma non prima di dichiarare i suoi peccati perdonati. Il motivo per cui Gesù coglie l’occasione è per manifestare il suo potere non solo di guarire (il che era palese a tutti) ma anche di perdonare i peccati, del quale il miracolo della guarigione serve come segno e prova. Gli scribi e i farisei, però, ne rimangono scandalizzati, perché si chiedono: “Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?”. Il loro ragionamento è valido, e avrebbero ragione che Gesù bestemmia, se egli fosse un mero uomo. Ma proprio questo è il punto: Gesù non è un mero uomo: è la vera presenza di Dio in mezzo agli uomini.

C’è ancora un altro livello di significato che non viene specificato ma sarebbe stato ovvio a tutti lì presenti. In quell’epoca, Dio aveva provveduto, nella legge di Mosè, al perdono dei peccati in un unico modo: attraverso i sacrifici che si potevano offrire solamente nel tempio a Gerusalemme. Durante la loro storia, gli ebrei si erano più volte messi nei guai costruendo altari illeciti in altri luoghi per potervi offrire sacrifici. Avevano provato sulla propria pelle così succede quando si cerca il perdono in modi non autorizzati da Dio nella legge. Ed ecco un uomo che si arroga il potere che Dio aveva concesso esclusivamente al tempio e al sacerdote. Ai loro occhi, questo non poteva essere altro che bestemmia.

Attraverso il miracolo, Gesù dimostra di avere il potere di perdonare i peccati, in quanto ha il potere di fare (come nel caso del lebbroso) ciò di cui la legge era incapace. In questo modo, egli non solo afferma di avere l’autorità e il potere uguali a Dio, ma anche di essere lui stesso il nuovo tempio, in grado di compiere quello che il tempio non poteva veramente fare. Il fatto che i sacerdoti dovessero sempre ripetere gli stessi sacrifici giorno dopo giorno e anno dopo anno testimoniava l’inadeguatezza del vecchio sistema. Gesù, invece, parla come se fosse capace di togliere il peccato definitivamente, una volta per sempre, e infatti così è. Gesù è il nuovo tempio, il nuovo sacerdote e il nuovo sacrificio che rendono obsoleti quelli vecchi.

3. Gli otri vecchi (Luca 6:1-11)

Queste due storie, come abbiamo detto, costituiscono la prima fetta di pane del panino narrativo in questo capitolo, e fanno vedere in particolare il “vino nuovo” che Gesù porta. La seconda fetta di pane, anch’essa fatta da due storie, apre il sesto capitolo. Mentre esse illustrano similmente il nuovo vino di Gesù, sottolineano la reazione, sempre più ostile, degli “otri vecchi” che non riescono a tenere il vino nuovo. Consideriamo queste store adesso.

Il vecchio riposo (6:1-5)

6:1 Avvenne che in un giorno di sabato egli passava per i campi di grano. I suoi discepoli strappavano delle spighe e, sfregandole con le mani, mangiavano il grano. 2 E alcuni farisei dissero: «Perché fate ciò che non è lecito di sabato?» 3 Gesù rispose loro: «Non avete mai letto ciò che fece Davide, quando ebbe fame, egli e coloro che erano con lui? 4 Come entrò nella casa di Dio, e prese i pani di presentazione, ne mangiò e ne diede anche a quelli che erano con lui, benché non sia lecito mangiarne se non ai soli sacerdoti?» 5 E diceva loro: «Il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

La legge del sabato che vietava ogni forma di lavoro in quel giorno era una delle colonne portanti della legge mosaica e della fede ebraica. L’esilio babilonese era stato dovuto in parte alla mancanza di rispetto mostrata a questo comandamento. Non era, dunque, una questione banale di cui i farisei si occupavano quando accusavano Gesù di aver permesso ai suoi discepoli di fare “ciò che non è lecito di sabato”. Anziché entrare in una di quelle discussioni complesse riguardanti le sottigliezze legali che i rabbini dell’epoca erano soliti fare, Gesù risponde citando l’esempio di Davide che ha mangiato il pane sacro che nessuno se non i sacerdoti poteva mangiare.

Adesso non abbiamo il tempo per sviscerare il confronto fra Davide e Gesù; a noi basta notare che Gesù indica se stesso come il “Signore del sabato”, il re ancora più grande del grande re Davide. L’accusa dei farisei è, in effetti, come uno che criticherebbe un Mozart, per esempio, per come esegue la sua propria composizione musicale. Gesù, essendo il Signore del sabato — e dunque pari al Signore che ha stabilito la legge del sabato sul monte Sinai, e prima ancora che si è riposato il settimo giorno dopo aver compiuto le sue opere creatrici — è libero di determinare ciò che è lecito e non lecito il giorno di sabato. In questo caso, il nuovo è la presenza del Signore stesso, la cui opera nel dare riposo al suo popolo è solo prefigurata dalla legge del sabato. Ciò che conta ora non è discutere sulle specifiche attività che bisogna evitare di sabato, ma piuttosto seguire il Signore del sabato e godere del risposo che egli concede. I farisei, però, non sono convinti, e Luca riferisce quello che accade poi un altro sabato nella storia successiva.

Il vecchio ordine (6:6-11)

6 Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era lì un uomo che aveva la mano destra paralizzata. 7 Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se avrebbe fatto una guarigione di sabato, per trovare di che accusarlo. 8 Ma egli conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati, e mettiti in mezzo!» Ed egli, alzatosi, stette in piedi. 9 Poi Gesù disse loro: «Io domando a voi: è lecito, di sabato, far del bene o far del male? Salvare una persona o ucciderla?» 10 E, girato lo sguardo intorno su tutti loro, disse a quell’uomo: «Stendi la mano!» Egli lo fece, e la sua mano fu guarita. 11 Ed essi furono pieni di furore e discutevano tra di loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.

A questo punto la narrativa giunge a una sorta di culmine, indicato dal parallelismo fra la prima storia in cui Gesù stende la mano per guarire il lebbroso (5:13) e il suo comando che l’uomo dalla mano paralizzata la stenda. Come nella prima storia, così anche qui Gesù si dimostra capace di porre rimedio ai problemi che il vecchio ordine sotto la legge mosaica poteva soltanto rilevare. Ma ormai non c’è più la stessa reazione, quando al 5:26: “Tutti furono presi da stupore e glorificavano Dio; e, pieni di spavento, dicevano: «Oggi abbiamo visto cose straordinarie».” Adesso, gli scribi e i farisei osservano Gesù con l’intenzione di trovare un motivo per poterlo accusare e, trovatolo, si riempiono di furore e cominciano a deliberare su come possono eliminarlo. Il loro obiettivo è già deciso, e da ora in poi cercheranno solo il modo e l’occasione per eseguirlo.

4. Il vecchio è buono (Luca 5:27-39)

Dopo aver considerato le due fette del panino, dobbiamo ora riflettere brevemente su “l’affettato di carne” che si trova in mezzo, e tirare le fila di questo studio.

5:27 Dopo queste cose, egli uscì e notò un pubblicano, di nome Levi, che sedeva al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». 28 Ed egli, lasciata ogni cosa, si alzò e si mise a seguirlo.

29 Levi gli preparò un grande banchetto in casa sua; e una gran folla di pubblicani e di altre persone erano a tavola con loro. 30 I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai discepoli di Gesù: «Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?» 31 Gesù rispose loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, bensì i malati. 32 Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori a ravvedimento».

33 Essi gli dissero: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e pregano; così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono». 34 Gesù disse loro: «Potete far digiunare gli amici dello sposo, mentre lo sposo è con loro? 35 Ma verranno i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto: allora, in quei giorni, digiuneranno». 36 Disse loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo a un vestito vecchio; altrimenti strappa il nuovo, e il pezzo tolto dal nuovo non si adatta al vecchio. 37 Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo fa scoppiare gli otri, il vino si spande, e gli otri vanno perduti. 38 Ma il vino nuovo va messo in otri nuovi. 39 E nessuno, che abbia bevuto vino vecchio, ne desidera del nuovo, perché dice: “Il vecchio è buono”».

Un banchetto scandaloso (5:27-32)

All’inizio di questo studio, abbiamo osservato che la parabola del vino nuovo e gli otri vecchi serve per illustrare l’argomento principale di questa porzione del vangelo. Qui scopriamo il contesto nel quale Gesù racconta la parabola: durante un banchetto scandaloso. È scandaloso perché Gesù, dopo aver chiamato un pubblicano a seguirlo come discepolo (che è già un gesto riprovevole in quanto i pubblicani erano truffatori e traditori che sostenevano l’impero romano), egli va a mangiare a casa di quel pubblicano, insieme a tutti gli altri pubblicani e peccatori! In quella società, mangiare in compagnia di qualcuno significava accettare quell’altro, abbracciare quell’altro in piena comunione. Come osa Gesù avere comunione con gente di questo tipo? O non sa con che gente ha a che fare (e in tal caso non sarebbe un profeta!), o lo sa ma lo fa comunque (e in tal caso non sarebbe affatto un fedele seguace della legge!).

Ancora una volta, la risposta di Gesù rivela la strabiliante novità del suo regno: le vecchie regole che servivano per proteggere il puro dall’impuro, il giusto dall’ingiusto e il santo del peccato non hanno più validità ora che è arrivato il Puro che purifica l’impuro, il Giusto che giustifica l’ingiusto, e il Santo che perdona il peccato. Gesù non è limitato dalle vecchie normative e usanze; anzi, cercare di fargliele rispettare sarebbe come mettere vino nuovo in otri vecchi che esploderebbero dalla pressione incontenibile!

L’ora della festa (5:33-35)

Evidentemente azzittiti da questa risposta, i farisei e gli scribi provano un altro approccio, e criticano Gesù per aver permesso ai suoi discepoli di mangiare e bere quando invece, secondo loro, dovrebbero digiunare. Di nuovo, Gesù risponde marcando l’adempimento che egli porta. Come gli amici dello sposo non digiunano quando è arrivata l’ora del matrimonio, così neanche i discepoli di Gesù digiunano ora che è giunta l’ora dell’adempimento! Arriverà il momento quando essi digiuneranno, dopo che Gesù si assenterà, ma non si può digiunare laddove lo sposo è presente!

Il vecchio contro il nuovo (5:36-39)

È a questo punto che arriviamo alla parabola del vino nuovo, che è preceduta da una simile, cioè del vestito nuovo e il vestito vecchio, la quale trasmette lo stesso concetto. Come non si può mettere vino nuovo in otri vecchi, perché questi ultimi si sono già distesi al massimo e hanno perso la loro elasticità, e il vino nuovo, fermentando, li farebbe scoppiare, così gli otri vecchi dell’ordine mosaico — la legge, il sacerdozio, il tempio, i sacrifici, il sabato — non possono contenere il vino nuovo dell’adempimento portato da Gesù. Mentre queste cose hanno prefigurato quell’adempimento – il regno da Gesù inaugurato – vengono superati e messi da parte quando quell’adempimento avviene. Il problema dei farisei e degli scribi è che hanno gusto solo per il vino vecchio, e non vogliono bere quello nuovo. Si sono talmente fissati sulle prefigurazioni che non riconoscono, o non vogliono riconoscere, la realtà quando arriva. Si schierano ostinatamente da parte del vecchio, e quindi si condannano alla nullità alla quale il vecchio è destinato.

5. Conclusione

Prima di concludere, voglio evidenziare come questo testo è ancora importante a noi oggi, che non siamo necessariamente tentati di aggrapparci alle prescrizioni e alle tradizioni del sistema mosaico (anche se ci sono ancora cristiani che lo vogliono fare!). In realtà, il nuovo che Gesù porta concerne molto più del vecchio patto ebraico; esso supera il vecchio uomo, ossia l’umano dalla natura peccaminosa e ostile a Dio. Questo è, infatti, il problema di fondo che il vecchio patto metteva in risalto ma, come abbiamo detto più volte, non era in grado di redimere. Nel superare il vecchio patto, Gesù prendeva di mira infatti il vecchio uomo — rappresentato da Adamo e la sua caduta nel peccato — per abolirlo e sostituire se stesso come il nuovo uomo. Come Paolo scrive in Romani 6:6:

Sappiamo infatti che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui affinché il corpo del peccato fosse annullato, e noi non serviamo più al peccato.

Per questo motivo, Paolo ci esorta in Efesini 4:22-24 a:

…spogliarvi del vecchio uomo che si corrompe seguendo le passioni ingannatrici; a essere invece rinnovati nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità che procedono dalla verità.

Finché questo non accadrà totalmente al ritorno di Cristo e alla risurrezione dei morti, dovremo sempre subire la morte del nostro vecchio uomo e il risuscitare del nostro nuovo uomo, che è Cristo stesso che vive in noi. Ma in quanto il vecchio è diametralmente opposto al nuovo — esemplificato dall’opposizione dei farisei e degli scribi a Gesù — dovremo sempre lottare contro il gusto naturale per il “vino vecchio”. Non dobbiamo rimanere sorpresi se, anche dopo tanti anni nella fede, ci sentiamo offesi o sconvolti o scandalizzati dal nuovo che la Parola di Dio ci rivolge. La Parola deve, infatti, fare ciò che il vino nuovo fa nei confronti degli otri vecchi: farli scoppiare! Questo non è per niente un’esperienza piacevole, come non lo è neanche un intervento chirurgico che deve prima ferire per poter guarire. Dobbiamo lasciare che il Grande Medico operi in noi senza limiti o ostacoli, in modo che noi possiamo sempre essere rinnovati alla sua immagine.

Per finire, faccio un esempio molto pertinente al contesto italiano nel quale viviamo. Per molti, scoprire per la prima volta il messaggio del vangelo è come gustare per la prima volta un buon vino dopo essersi abituati a bere solo vino scadente. Ma dopo un po’, il vecchio vino della religione culturale dominante comincia a richiamarli a sé. Dopo tutto, il vino del cattolicesimo romano è quello che hanno sempre bevuto; non è sempre stato sufficiente? Forse il vino nuovo del vangelo è, oggettivamente parlando, superiore, ma non siamo forse più abituati al gusto del vecchio? Inoltre, il vino del cattolicesimo è quello che tutti gli altri bevono. Non vogliamo apparire strano o troppo controcorrente perché beviamo invece quel vino sconosciuto e peculiare! In fin dei conti, qual è il problema se torniamo a bere il vino vecchio?

Il problema è quello rivelato in Luca 5 e 6. Il vino vecchio della religione è incompatibile con il vino nuovo del vangelo. Forse all’inizio, i farisei e gli scribi pensavano che fosse possibile qualche compromesso o qualche sintesi fra il vecchio e il nuovo. Ma Gesù rifiutava di permettere qualsiasi nozione di compromesso o di sintesi. Il vino nuovo fa scoppiare il vecchio, e il vecchio non tollera il nuovo. Bisogna fare la propria scelta. Ci lasceremo indurre, come i figli d’Israele nel deserto, dai ricordi del vecchio che avevamo in Egitto, perché nelle difficoltà e nelle afflizioni del deserto, il vecchio sembra promettere sollievo e conforto? O continueremo a seguire il nostro Signore lungo la nuova e sconosciuta via che, per quanto spaventosa e ardua, è l’unica che porta al conforto vero della vita eterna?

Che il Signore ci dia la grazia per poter perseverare come i suoi fedeli discepoli e servitori nel percorso che ci è proposto, fissando lo sguardo su Gesù, che prima di noi e per noi ha sopportato la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. Amen!

Marco 11: Il frutto che sfama il mondo

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1. Introduzione (Marco 11:7-11)

7 Essi condussero il puledro a Gesù, gettarono su quello i loro mantelli ed egli vi montò sopra. 8 Molti stendevano sulla via i loro mantelli; e altri, delle fronde che avevano tagliate nei campi. 9 Coloro che andavano avanti e coloro che venivano dietro gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! 10 Benedetto il regno che viene, il regno di Davide, nostro padre! Osanna nei luoghi altissimi!» 11 Gesù entrò a Gerusalemme nel tempio; e dopo aver osservato ogni cosa intorno, essendo già l’ora tarda, uscì per andare a Betania con i dodici.

1.1. L’inizio della fine

L’undicesimo capitolo del vangelo di Marco si apre con quella famosa scena celebrata ogni anno la domenica prima della Pasqua, ovvero la Domenica delle Palme. Mi riferisco all’ingresso trionfale di Gesù, quando egli entra nella città di Gerusalemme e così innesca la serie di avvenimenti che venerdì lo porterà sulla croce. Fino a questo momento, Gesù è stato sempre reticente a dichiararsi il Messia apertamente, proprio perché sapeva che così facendo, avrebbe oltrepassato il punto del non ritorno, al di là del quale sarebbe stata solo una questione di giorni prima di essere messo a morte.

Ora, però, l’ora del compimento è arrivata, e Gesù entra in Gerusalemme in un modo deliberatamente calcolato per rivelarsi pubblicamente come Messia, il figlio di Davide tornato per rivendicare il suo trono — pur trattandosi di un trono molto diverso da quello desiderato dalla maggior parte della gente, inclusi i suoi discepoli. In ogni caso, il popolo di Gerusalemme capisce subito il messaggio lanciato da Gesù e lo acclama con le parole del Salmo 118. Galvanizzato da ciò che gli sembra un liberatore militare, essi gridano: “Osanna!”, cioè “Salva!”, inteso come: “Liberaci dal dominio dell’impero romano”. Gesù arriva come Messia e liberatore, ma piuttosto da quel dominio ancora più potente e opprimente: il dominio del male, del maligno e della morte.

La mossa successiva di Gesù è prevedibile: dopo essere entrato in città, passa subito nel tempio per osservare “ogni cosa intorno”. Il tempio, infatti, rimane la prima struttura che si incontra entrando a Gerusalemme per la porta orientale, ma non è tanto per questo che Gesù va subito al tempio. Il profeta Malachia (già citato nel secondo versetto del vangelo) aveva predetto proprio questo:

3:1 «Ecco, io vi mando il mio messaggero, che spianerà la via davanti a me e subito il Signore, che voi cercate, l’Angelo del patto, che voi desiderate, entrerà nel suo tempio. Ecco egli viene», dice il SIGNORE degli eserciti. 2 Chi potrà resistere nel giorno della sua venuta? Chi potrà rimanere in piedi quando egli apparirà? Egli infatti è come il fuoco del fonditore, come la potassa dei lavatori di panni. 3 Egli si metterà seduto, come chi raffina e purifica l’argento, e purificherà i figli di Levi e li raffinerà come si fa dell’oro e dell’argento; ed essi offriranno al SIGNORE offerte giuste.

Entrare nel e purificare il “suo tempio” doveva sempre essere il “lavoro numero uno” del Messia quando sarebbe finalmente venuto, e questo è esattamente quello che Gesù si prepara a fare il giorno successivo, il lunedì prima della Pasqua ebraica. È a questo punto nella narrativa che inizia il nostro studio.

1.2. Il contesto

La purificazione del tempio — un’altra scena molto famosa della vita di Gesù — è racchiusa dallo strano “scontro” che Gesù ha con un fico, costituendo l’ennesimo “panino narrativo” che Marco utilizza ripetutamente. Ciò che a primo sguardo può sembrare strano spiega, in realtà, quello che Gesù compie all’interno del tempio. Come egli maledice il fico dopo non averci trovato frutto ma solo foglie, così pronuncia sentenza di giudizio contro il tempio, e in particolare contro coloro che avevano la responsabilità di custodirlo. Come il fico da lontano dava l’impressione di vitalità a causa delle sue foglie, così anche il tempio, dall’esterno, dava l’impressione di essere la casa di Dio. Persino i discepoli ne restano meravigliati quando esclamano all’inizio del capitolo 13: “Maestro, guarda che pietre e che edifici!”.

La riposta di Gesù è una schietta distillazione del significato del suo gesto al capitolo 11: “Vedi questi grandi edifici? Non sarà lasciata pietra su pietra che non sia diroccata” (13:2). Come nessuno avrebbe mai più mangiato frutto dal fico, così nessuno avrebbe mai più considerato il tempio la dimora del Signore e il luogo di espiazione per i peccati, perché come il fico, così anche il tempio sarebbe rimasto “seccato fin dalle radici”. Capiamo, dunque, che l’azione di Gesù nel tempio svolge la stessa funzione delle sue parole contro il fico. Da quel punto, sarà solo una questione di tempo fino a quando il tempio non sarà completamente diroccato.

Ma per quanto riguarda il compimento del piano di Dio, questo non rappresenta un ostacolo, anzi è necessario. Il tempio sarà distrutto non solo perché non produce frutto, ma anche perché la realtà di cui serve solo come prefigurazione è arrivata in Gesù: il vero tempio, il vero sacerdote, il vero sacrificio. Tramite la sua morte e la sua risurrezione, Gesù compirà ciò che il tempio simboleggia ma non può effettuare: il perdono dei peccati e la riconciliazione del mondo a Dio. Egli è l’unico mediatore fra Dio e gli uomini (1 Timoteo 2:4), perciò il tempio e tutto quello che appartiene al suo culto diventano obsoleti quando Gesù, mediante un unico sacrificio irripetibile, toglie tutti i peccati del mondo una volta per sempre.

Questo è, in grande linea, il significato della purificazione del tempio e la “parabola vivente” che Gesù compie nei confronti del fico. Vi è tuttavia un altro elemento molto importante che concerne il “frutto” mancante. Questo è un aspetto del testo che, parlando personalmente, non ho mai compreso bene, fino a poco tempo fa. Più volte ho letto, studiato e anche insegnato questo capitolo, senza però fare tutti i collegamenti tra il fico e il tempio. Il fico come parabola del giudizio divino contro il tempio, questo l’avevo già capito, ma mi sembrava strano che, tornato al fico il giorno dopo con i suoi discepoli, Gesù cogliesse l’occasione per insegnare sulla fede e sulla preghiera. Mi pareva una sorte di conclusione illogica, ossia poco coerente con il precedente episodio. In questo momento, parlare della fede e della preghiera, per quanto sia importante, non mi sembrava avere molto a che vedere con la purificazione del tempio, e quindi trattavo il successivo discorso di Gesù con meno attenzione. Sapevo che mi sfuggiva qualcosa, ma non ero mai riuscito a individuare cos’era.

La preparazione di questo sermone, però, mi ha messo di nuovo davanti alla questione, e dopo ulteriori riflessioni, credo di aver finalmente scoperto la coerenza di questo brano, senza dubbio grazie solo all’aiuto dello Spirito. Questo è quello che voglio condividere con voi oggi nel tempo che rimane in questo studio.

1.3. Il riassunto dell’argomento

Per riassumere l’argomento principale, Marco ci insegna che la preghiera di fede (da distinguere, sì, dalla preghiera incredula o poco convinta) è il frutto che il Signore vuole raccogliere da noi che siamo il nuovo tempio edificato in Cristo, perché è la preghiera che non è solo la dimostrazione della pietà personale ma la potenza che cambia il mondo, tanto da sradicare e spostare persino i monti. Come Gesù voleva trasmettere ai suoi discepoli, così Marco vuole trasmettere anche a noi: la preghiera è il frutto che sfama il mondo.

2. Il fico e il tempio (Marco 11:12-19)

12 Il giorno seguente, quando furono usciti da Betania, egli ebbe fame. 13 Veduto di lontano un fico, che aveva delle foglie, andò a vedere se vi trovasse qualche cosa; ma, avvicinatosi al fico, non vi trovò niente altro che foglie; perché non era la stagione dei fichi. 14 Gesù, rivolgendosi al fico, gli disse: «Nessuno mangi mai più frutto da te!» E i suoi discepoli udirono.

15 Vennero a Gerusalemme e Gesù, entrato nel tempio, si mise a scacciare coloro che vendevano e compravano nel tempio; rovesciò le tavole dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi; 16 e non permetteva a nessuno di portare oggetti attraverso il tempio. 17 E insegnava, dicendo loro: «Non è scritto: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti”? Ma voi ne avete fatto un covo di ladroni». 18 I capi dei sacerdoti e gli scribi udirono queste cose e cercavano il modo di farlo morire. Infatti avevano paura di lui, perché tutta la folla era piena d’ammirazione per il suo insegnamento. 19 Quando fu sera, uscirono dalla città.

2.1. Il frutto mancante

Abbiamo già accennato al simbolismo del fico relativo al tempio, ma serve ancora qualche commento. La prima cosa da notare è che mentre Gesù si dirige verso Gerusalemme il lunedì mattina da Betania dove ha passato la notte, si avvicina al fico perché ha fame (v.12). È l’ora di fare colazione, e Gesù vede un fico che da lontano appare pronto a sfamarlo. Non è il caso, e sappiamo già come Gesù reagisce. Per ribadire, Gesù non si comporta dal bambino viziato che fa i capricci quando non gli viene dato quello che vuole. Il suo è un gesto ricco di significato, inteso per illuminare ciò che sta per compiere nel tempio. Il punto saliente da sottolineare qui è il fatto che all’inizio Gesù si avvicini al fico perché ha fame.

La seconda cosa da notare è lo specifico frutto che manca. Mi riferisco adesso non tanto al fico (il cui frutto è troppo ovvio) quanto al tempio. C’è molto che potremmo proporre come “frutto” che Gesù cerca nel tempio ma non trova: sacerdoti che si sforzano sia di predicare bene che di razzolare bene, sacrifici offerti da cuori sinceri, aiuti concreti per i bisognosi, e così via. Certamente il discorso dell’ingiustizia che Gesù trova nel tempio è molto valido, in quanto condanna quelli che ne hanno fatto “un covo di ladroni”. Tutte queste cose, però, non azzeccano veramente quello che corrisponde al frutto mancante del fico.

La risposta giusta, che costituisce infatti il concetto chiave della narrativa, è talmente palese che può essere facilmente trascurata. Gesù stesso la indica esplicitamente: ha trovato nel tempio un “covo di ladroni” quando avevo invece cercato una “casa di preghiera per tutte le genti” (v.17). Eccola qui! Fra tutte le cose che Gesù avrebbe potuto indicare come frutto mancante, mette in rilievo la preghiera.

Cominciamo già a vedere il legame con il discorso che segue, ma prima di proseguire, soffermiamoci un momento per riflettere sul significato di questo. Perché Gesù denuncia in particolare la mancanza della “preghiera per tutte le genti” e non tanti altri oltraggi? Se si chiede oggi alla gente: “Qual è il più grande problema della chiesa?”, le risposte spazieranno tra la corruzione, la pedofilia, il dogmatismo, l’ipocrisia, gli scandali finanziari, e altre cose simili. È poco probabile, però, che qualcuno nomini “mancanza di preghiera” come Gesù. Perché, dunque, Gesù parla in questa maniera?

2.2. La casa di preghiera

Ci aiuterà ricordare il momento quando il primo tempio, progettato dal re Davide e costruito da suo figlio, Salomone, è stato dedicato. In 2 Cronache 6, ci viene riferita la preghiera d’invocazione offerta da Salomone pubblicamente “in presenza di tutta l’assemblea d’Israele” (v.13). La preghiera è teologicamente ricca e particolarmente utile per farci capire il significato del tempio nel piano del Signore. Leggiamone alcuni estratti:

19 … SIGNORE, Dio mio, abbi riguardo alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica, ascoltando il grido e la preghiera che il tuo servo ti rivolge. 20 Siano i tuoi occhi giorno e notte aperti su questa casa, sul luogo nel quale dicesti di voler mettere il tuo nome! Ascolta la preghiera che il tuo servo farà, rivolto a questo luogo!…

24 Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto dal nemico per aver peccato contro di te, se torna a te, se dà gloria al tuo nome e ti rivolge preghiere e suppliche in questa casa, 25 tu esaudiscilo dal cielo, perdona al tuo popolo Israele il suo peccato, e riconducilo nel paese che desti a lui e ai suoi padri. 26 Quando il cielo sarà chiuso e non vi sarà più pioggia a causa dei loro peccati contro di te, se essi pregano rivolti a questo luogo, se danno gloria al tuo nome e si convertono dai loro peccati perché li avrai afflitti, 27 tu esaudiscili dal cielo, perdona il peccato ai tuoi servi e al tuo popolo Israele, ai quali avrai mostrato la buona strada per cui debbono camminare; e manda la pioggia sulla tua terra, che hai data come eredità al tuo popolo….

32 Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, quando verrà da un paese lontano a causa del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio disteso; quando verrà a pregarti in questa casa, 33 tu esaudiscilo dal cielo, dal luogo della tua dimora, e concedi a questo straniero tutto quello che ti domanderà, affinché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome per temerti, come fa il tuo popolo Israele, e sappiano che il tuo nome è invocato su questa casa che io ho costruita….

36 Quando peccheranno contro di te, infatti non c’è uomo che non pecchi, e tu, sdegnato contro di loro, li avrai abbandonati in balia del nemico che li deporterà in un paese lontano o vicino, 37 se, nel paese dove saranno schiavi, rientrano in se stessi, se tornano a te e rivolgono suppliche nel paese della loro schiavitù, e dicono: “Abbiamo peccato, abbiamo agito empiamente, siamo stati malvagi”, 38 se tornano a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nel paese della loro prigionia dove sono stati condotti schiavi, e ti pregano, rivolti al loro paese, il paese che tu desti ai loro padri, alla città che tu hai scelta, e alla casa che ho costruita al tuo nome, 39 esaudisci dal cielo, dal luogo della tua dimora, la loro preghiera e le loro suppliche, e fa’ loro ottenere giustizia; perdona al tuo popolo che ha peccato contro di te.

Se leggiamo attentamente la preghiera di Salomone, non ci può sfuggire l’importanza attribuita alla preghiera rispetto al tempio. Fra i vari fini ai quali il tempio serviva, doveva essere in fondo una “casa di preghiera”, un altro modo per dire “casa di comunione”. Tutto ciò che doveva accadere al suo interno — sacrifici, offerte, insegnamenti, cantici, purificazioni cerimoniali, dediche di bambini, feste e altro ancora ­— mirava a stabilire e a mantenere la comunione d’Israele con il suo Dio, il Signore. La preghiera, in quanto comunione diretta e immediata, rappresentava l’apice dei vari ministeri del tempio. Per qualsiasi esigenza o difficoltà, per i problemi piccoli e le afflizioni grandi, il popolo doveva rivolgersi al Signore, incoraggiato dalla fiducia che egli l’avrebbe sempre esaudito. Se in fondo, ogni male è la conseguenza dalla nostra separazione da Dio, il rimedio è il rinnovamento della nostra comunione con Dio, di cui la preghiera è il coronamento.

Di particolare importanza è quanto Salomone dice riguardo allo straniero ai vv.32-33, perché era proprio per portare le sue benedizioni a “tutte le famiglie della terra” che Dio aveva scelto Israele. Ecco perché Gesù specifica che il tempio doveva essere la casa di preghiera “per tutte le genti”: non solo per il beneficio d’Israele, ma anche (e soprattutto!) per il beneficio del resto del mondo. Quindi, tirando le somme a questo punto, arriviamo a questa conclusione: Gesù indica la “preghiera per tutte le genti” come il frutto principale mancante al tempio, in quanto è la preghiera che svolge il ruolo decisivo nel compimento del piano di Dio per salvare tutte le genti della terra, nonché costituisce la forma più vitale della comunione con Dio. Il tempio senza la preghiera è tanto inutile quanto lo è un fico senza frutto. Entrambi sono incapaci di soddisfare la fame.

3. La fede e la preghiera (Marco 11:20-25)

20 La mattina, passando, videro il fico seccato fin dalle radici. 21 Pietro, ricordatosi, gli disse: «Rabbì, vedi, il fico che tu maledicesti è seccato». 22 Gesù rispose e disse loro: «Abbiate fede in Dio! 23 In verità io vi dico che chi dirà a questo monte: “Togliti di là e gettati nel mare”, se non dubita in cuor suo, ma crede che quel che dice avverrà, gli sarà fatto. 24 Perciò vi dico: tutte le cose che voi domanderete pregando, credete che le avete ricevute, e voi le otterrete. 25 Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe. 

3.1. La preghiera e il nuovo tempio (11:22, 25)

Al v.20, arriviamo all’altra “fetta” del panino, quando la mattina successiva (di martedì), Gesù e i discepoli passano di nuovo da Betania a Gerusalemme, e Pietro osserva il fico che ormai è “seccato fin dalle radici”. Avrebbe senso se a questo punto, Gesù avesse spiegato il significato del fico seccato relativo alla sua azione nel tempio il giorno precedente. Ma non lo fa. Invece, comincia a parlare della fede, del potere di chi crede veramente e dell’efficacia della preghiera. Ma che c’entra?

C’entra molto quando teniamo presente la parte “carnosa” del testo, ovvero la purificazione del tempio. Come abbiamo già visto, Gesù l’ha fatta come gesto profetico del giudizio imminente, poiché non aveva trovato il frutto necessario. Quale frutto? La “preghiera per tutte le genti”. Ora, il giorno dopo, Gesù si rivolge ai suoi discepoli (quelli che saranno poi gli apostoli) e, in presenza del fico seccato (che rappresenta il tempio), li esorta ad avere fede in Dio, la fede che sposta i monti per mezzo della preghiera efficace. In altre parole, Gesù dice che il frutto della preghiera per tutte le genti — quella preghiera che, secondo Salomone, serve per portare a compimento il piano di Dio di benedire tutto il mondo — lo produrranno adesso i discepoli, quelli che costituiscono le fondamenta del nuovo e vero tempio, la chiesa, il popolo composto appunto da tutte le genti della terra. In un senso, dunque, i discepoli e la chiesa che essi rappresentano sono il nuovo fico, una nuova “casa di preghiera per tutte le genti”. Questo, credo, è il significato del discorso di Gesù sulla fede e sulla preghiera in questi versetti.

3.2. La preghiera e l’esaudimento (11:23-24)

Adesso siamo in grado di capire i vv.23-24. Alcuni vogliono usarli per pretendere ogni sorta di risultato dalla fede e dalla preghiera — soldi, salute, una bella casa e una famiglia perfetta — dicendo che, se uno ha abbastanza fede e crede veramente quando chiede queste cose a Dio, gliele saranno date. Questo è un evidente travisamento di questi versetti, anche perché lo stesso Gesù non ha ricevuto ciò che ha chiesto a Dio nel giardino di Getsemani, cioè di allontanare il calice della croce! A meno che non vogliamo concludere che Gesù non abbia avuto abbastanza fede, dobbiamo scartare subito quest’interpretazione. Dall’altro canto, coloro che vogliono giustamente evitare questo errore rimangono a volte perplessi quando cercano di proporre un’esegesi alternativa. Che cosa vuole dire Gesù esattamente?

In un senso, questi versetti si interpretano da soli alla luce di quanto abbiamo appena studiato. Il “monte” che va spostato dalla fede e le “cose” che saranno sicuramente ottenute se chieste con quella fede sono da riferire a ciò che simboleggia il frutto del fico, sempre la “preghiera per tutte le genti”, il tipo di preghiera che Salomone ha esemplificato che mira specificamente al compimento del piano di Dio per le nazioni. Di fronte alla forza del male, l’intrattabilità della morte e l’ostinazione del cuore umano, la promessa di Dio di benedire tutte le famiglie della terra per mezzo della discendenza di Abraamo (di cui noi, in Cristo, facciamo parte), sembra quasi un’impossibilità. Basta pensare agli apostoli — dodici uomini, semplici e poco istruiti, alcuni disprezzati e altri con un passato discutibile. Sono (per non parlare di noi oggi!) da paragonare a quei pochi pani e pesci davanti alla moltitudine di cinquemila uomini affamati.

Ecco perché occorre la fede: credere che lo stesso Gesù che ha sfamato quella moltitudine proprio con tali poche provviste può servirsi anche di noi, pochi e inetti che siamo, per sfamare il mondo. Ed ecco perché è necessaria la preghiera: poiché siamo pochi e inetti (come i discepoli), dobbiamo costantemente chiedere al Signore di compiere il suo proposito per mezzo nostro. Non possiamo per niente farlo nelle nostre forze, ma solo per l’onnipotenza del Dio dell’universo.

3.3. L’unico vero intercessore (11:32-42)

Ammettiamo, però, che siamo ben lontani dall’avere la fede che sposta monti e dal pregare sempre con la certezza di ottenere le cose che chiediamo. Ma anche qui siamo in buona compagnia. Mi riferisco di nuovo a ciò che accade nel giardino di Getsemani, poche ora prima della crocifissione di Gesù, quando egli chiede a Pietro, Giacomo e Giovanni di accompagnarlo e di sostenerlo nella preghiera. Quando torna da loro, però, li trova addormentati, incapaci di “vegliare un’ora sola” (14:37). In questo momento — il momento più critico della sua vita — solo Gesù dimostra la vera fede e la forza di pregare. Come egli è l’unico mediatore, così è anche l’unico intercessore.

Quante volte siamo come i discepoli, sopraffatti dalla stanchezza o distratti da altre faccende, senza pregare e senza aver fede proprio nel momento cruciale della battaglia! Eppure, non è, alla fine, la nostra fede e le nostre preghiere a compiere il proposito di Dio, bensì la fede e le preghiere del nostro Signore Gesù. Certo, la sua perfezione non giustifica la nostra pigrizia. Ma quando rimaniamo scoraggiati alla debolezza della nostra fede e all’inefficacia delle nostre preghiere, dobbiamo ricordarci che è sempre la fede e l’intercessione di Gesù che ci sostengono e ci assicurano che i nostri pochi pani di fede e pesci di preghiera saranno comunque usati per compiere il piano di Dio per il mondo.

4. Conclusione

 In conclusione, dunque, voglio semplicemente esortarvi a ravvivare, in base a questi versetti, il vostro impegno nel servizio del Signore. Dobbiamo attendere alla crescita e al rafforzamento della nostra fede, che avvengono soprattutto quando il nostro sguardo rimane fisso su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Dobbiamo anche vegliare con Gesù nella preghiera, chiedendo che sia fatta la sua volontà in terra come in cielo, e chiedendo di essere usati anche noi per portare il frutto di cui il mondo ha fame.

Non dobbiamo mai sottovalutare l’importanza delle nostre preghiere, perché, come indica chiaramente Marco 11, è la preghiera di fede che sposta i monti. Per quanto possa essere forte il male, la preghiera di fede è ancora più forte. Per quanto possa essere formidabile il maligno, la preghiera di fede è ancora più formidabile. Per quanto possa essere duro il cuore umano rispetto al vangelo, la preghiera di fede è un martello ancora più duro, in grado di spaccare anche la pietra più resistente. Questo è il frutto che il Signore vuole raccogliere da noi, e vogliamo essere fedeli e costanti nel produrlo, così che quando torna, non troverà soltanto foglie.

Amen!

Marco 7: Egli fa ogni cosa bene

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1. Introduzione (Marco 6:53-56)

6:53 Passati all’altra riva, vennero a Gennesaret e scesero a terra. 54 Come furono sbarcati, subito la gente, riconosciutolo, 55 corse per tutto il paese e cominciarono a portare qua e là i malati sui loro lettucci, dovunque si sentiva dire che egli si trovasse. 56 Dovunque egli giungeva, nei villaggi, nelle città e nelle campagne, portavano gli infermi nelle piazze e lo pregavano che li lasciasse toccare almeno il lembo della sua veste. E tutti quelli che lo toccavano erano guariti.

1.1. Annoiati dallo straordinario?

Se siete in qualche modo come me, forse vi troverete a leggere i resoconti dei miracoli di Gesù, specie le guarigioni, con un po’ di fretta. A questo punto nel vangelo, perdiamo la meraviglia iniziale con cui abbiamo letto i primi capitoli, perché tanto, abbiamo già visto Gesù guarire molte persone! Arriviamo, dunque, al capitolo sette, e poi al capitolo otto, un po’ stufati che la narrativa continua a essere “interrotta” da miracoli che abbiamo già incontrato. Dai, Marco, raccontaci qualcosa di nuovo!

Dico questo, ovviamente, con non poca ironia, perché a questo punto dovremmo anche sapere che Marco non scrive niente a caso. Se decide di riferire altri miracoli di guarigione, un motivo ci sarà. Quindi, dobbiamo leggere con tanta attenzione per scoprire non solo quello che Gesù ha compiuto in queste altre situazioni ma anche la ragione per cui Marco ha ritenuto importante collocare questi episodi proprio dove ora si trovano nel vangelo. Insomma, dobbiamo guardarci dall’essere annoiati dallo straordinario!

1.2. Il contesto

Con questa premessa, facciamo qualche osservazione riguardo al contesto di Marco 7. È curioso che, dopo aver riassunto tutta la attività miracolosa di Gesù alla fine del capitolo 6, Marco prosegua raccontandoci altri esempi specifici al capitolo 7, ai vv.24-30, ai vv.31-37, e poi al capitolo 8, vv.22-26. Perché questo? Perché non gli basta dire alla fine del capitolo 6: “Dovunque egli giungeva, nei villaggi, nelle città e nelle campagne, portavano gli infermi,… E tutti quelli che lo toccavano erano guariti.”? A quale scopo servono le successive guarigioni nella narrativa?

Io riesco a individuare almeno tre obiettivi che Marco ha nel riferirci questi episodi. Vediamo subito i primi due, ma il terzo sarà l’argomento principale del nostro studio oggi. Il primo obiettivo è di mostrare ciò che distingue quelli a cui è dato di conoscere “il mistero del regno di Dio” da quelli che non hanno occhi per vedere né orecchie per udire né cuori per comprendere. La cosa sorprendente al capitolo 7 è che questi ultimi dovrebbero essere i primi, mentre i primi sono (o erano) in realtà questi ultimi.

Questo viene illustrato dalla giustapposizione dello scontro tra Gesù e i farisei ai vv.1-23 e dell’incontro tra Gesù e la donna pagana ai vv.24-30. I farisei dovrebbero essere i primi a riconoscere Gesù come Messia e credere in lui, ma invece litigano con lui su questioni secondarie e vengono smascherati come ipocriti che onorano il Signore con le labbra ma hanno il cuore lontano da lui. In questo modo, dimostrano di essere i primi che diventano gli ultimi, incapaci di vedere, di udire e di comprendere il mistero del regno di Dio.

Dall’altro canto, la donna pagana dovrebbe essere l’ultima a credere in Gesù proprio perché è pagana, proveniente da un contesto culturale e religioso totalmente opposto alla fede nel Dio d’Israele. Tuttavia, questa donna dimostra una fede vera, se non proprio audace, nei confronti di Gesù. La sincerità e la forza della sua fede emergono quando Gesù sembra resistere alle sue suppliche iniziali di guarire sua figlia. Lei, rispetto ai figli d’Israele, è come un cagnolino indegno di mangiare “il pane dei figli”. Non ha nessun merito davanti a Gesù. Ma lungi dal rimanere scoraggiata da questo fatto (che lei ammette apertamente), esso diventa per lei il motivo più importante per farsi coraggio: “Sì, Signore, … ma i cagnolini, sotto la tavola, mangiano le briciole dei figli” (7:28). Dice in effetti di essere venuta da Gesù perché, pur sapendo di essere indegna nei suoi confronti, sa anche che il suo aiuto non dipende dai meriti che uno gli dimostra ma soltanto dalla grazia che viene in aiuto a quelli che meriti non ce li hanno. Questo è uno dei motivi per cui il vangelo è buona notizia, e questo caso di guarigione lo illustra con grande chiarezza.

Il secondo obiettivo che Marco ha nel descrivere questi altri miracoli consegue dal primo. Com’è che una donna pagana ha occhi per vedere, orecchie per udire e un cuore per comprendere il mistero del regno di Dio ma i farisei no? La risposta si presenta nella giustapposizione di altre due guarigioni — quella del sordomuto ai vv.31-37 e quella del cieco al 8:22-26 — con l’incomprensione dei discepoli e l’incredulità dei farisei al 8:1-21. Dopo una seconda moltiplicazione di pani per sfamare una grande folla, i discepoli stessi dimostrano di essere ancora incapaci di comprenderne il significato, avendo “il cuore indurito”, occhi che non vedono e orecchie che non odono (8:17-18). I farisei chiedono a Gesù un segno solo “per metterlo alla prova” (8:11), e non perché abbiano il desiderio di credere.

Dall’altra parte, è Gesù a essere in grado di guarire gli occhi ciechi perché vedano e le orecchie sorde perché odano, come esemplificato negli altri due casi di guarigione. Il punto è piuttosto ovvio: lasciati a noi stessi, siamo tutti come i farisei e i discepoli, ciechi e sordi e dunque incapaci di comprendere e di credere. Solo Gesù ha il potere di aprirci gli occhi e le orecchie, e ciò egli ci farà, ma non perché ne siamo degni ma perché egli è pieno di compassione. La conseguenza della grazia è che nessuno può vantarsi davanti a Dio e disprezzare altri che non comprendono. Possiamo, e dobbiamo, solo ringraziare e lodare il Signore, ripetendo anche noi che “Egli ha fatto ogni cosa bene” (7:37).

1.3. Il riassunto dell’argomento

Questo è, infatti, il terzo obiettivo di Marco: di farci riflettere sul modo in cui Gesù ha toccato ognuno di noi per guarire la nostra incomprensione, e di rispondere costantemente con la lode e la gratitudine. Se noi vediamo e odiamo, se comprendiamo il mistero del regno di Dio e abbiamo creduto in Gesù per entrarvi, è solo perché Gesù ha fatto nei nostri confronti ciò che ha compiuto nel vangelo per altri. Egli ha visto la nostra condizione malata (e infatti morta!), ha mostrato la sua misericordia nel venirci incontro e nel toccarci proprio nel modo specifico di cui avevamo bisogno. Questa è anche la nostra storia alla fine della quale dobbiamo sempre esclamare “Egli ha fatto ogni cosa bene!”

2. La guarigione del sordomuto (Marco 7:31-37)

31 Gesù partì di nuovo dalla regione di Tiro e, passando per Sidone, tornò verso il mare di Galilea attraversando il territorio della Decapoli. 32 Condussero da lui un sordo che parlava a stento; e lo pregarono che gli imponesse le mani. 33 Egli lo condusse fuori dalla folla, in disparte, gli mise le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34 poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò e gli disse: «Effatà!» che vuol dire: «Apriti!» 35 E gli si aprirono gli orecchi; e subito gli si sciolse la lingua e parlava bene. 36 Gesù ordinò loro di non parlarne a nessuno; ma più lo vietava loro e più lo divulgavano; 37 ed erano pieni di stupore e dicevano: «Egli ha fatto ogni cosa bene; i sordi li fa udire, e i muti li fa parlare»

2.1. Ognuno è un caso unico

Quando incontriamo racconti simili nella Scrittura, la chiave di comprensione si trova spesso nelle differenze. Abbiamo davanti un caso esemplare. Subito prima, Marco ci riferisce la guarigione della figlia della donna pagana. Il risultato finale è lo stesso, ma il processo è molto diverso. Nei confronti della donna pagana, Gesù agisce come se non volesse aiutarla. Noi sappiamo che il suo comportamento mira a mettere alla prova la sua fede, dandole l’occasione per dimostrarne la piena audacia.

Nei confronti del sordomuto, invece, Gesù agisce in maniera diversa. Non c’è nessun’esitazione da parte sua, e mentre guarisce la figlia della donna pagana a distanza, senza neanche vederla, qui guarisce il sordomuto solo dopo averlo toccato con le proprie mani. Potremmo ampliare queste osservazioni a considerare anche altri casi di guarigione nel vangelo, ma solo questi due dovrebbero bastare per farci capire un punto fondamentale: Gesù vede ognuno come un caso unico. Egli, perciò, non agisce sempre nello stesso modo anche se lo scopo è sempre lo stesso.

È importante precisare questo punto, perché dopo aver letto una descrizione generale dell’attività miracolosa di Gesù — come quella con cui abbiamo cominciato questo studio — sarebbe facile pensare che Gesù agisse come una specie di fabbrica di guarigione, come una catena di montaggio in cui si fa passare davanti tutti i malati per guarirli con lo stesso gesto e la stessa parola. Tale processo sarebbe, in realtà, un efficiente uso del suo tempo e della sua energia, permettendogli di guarire il maggior numero di persone nel minimo tempo necessario.

Ma a Gesù non importa l’efficienza quando si tratta delle persone, ognuna delle quali è un caso unico. Gesù non è una macchina di guarigione, bensì un Salvatore pieno di compassione verso ognuno che ha bisogno di lui. La cosa importante da imparare, dunque, è che Gesù non ci tratta come una massa indistinta, ma piuttosto in base ai bisogni particolari che ognuno di noi ha. Egli ci conosce meglio di noi stessi, e ci tratta tutti come un caso unico e speciale, meditando una guarigione “su misura”. Gesù è il Figlio del Padre che conta “perfino i capelli del vostro capo” (Matteo 10:30), talmente sono grandi le sue compassioni!

2.2. La stranezza di questo caso

Consideriamo adesso i particolari dello specifico caso del sordomuto. I dettagli possono sembrare addirittura strani:

33 Egli lo condusse fuori dalla folla, in disparte, gli mise le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34 poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò e gli disse: «Effatà!» che vuol dire: «Apriti!» 35 E gli si aprirono gli orecchi; e subito gli si sciolse la lingua e parlava bene.

Le differenze tra il sordomuto e la donna pagana sono importanti. Gesù, ovviamente, non ha bisogno di fare gesti o riti complessi per poter guarire. Nel caso della donna pagana, gli basta dire: “Per questa parola, va’, il demonio è uscito da tua figlia”. Nei confronti del sordomuto, invece, Gesù gli ficca le dita nelle orecchie, gli mette la sua saliva sulla lingua, e solo dopo aver sospirato dice: “Apriti!” per compiere la guarigione. Perché tutta questa gestualità? Non sarebbe più efficiente semplicemente andare subito al “Apriti!” per poter proseguire al prossimo malato in coda?

Abbiamo già notato che Gesù non si interessa dell’efficienza quando ha a che fare con le persone che hanno bisogno di lui. Lo ha dimostrato anche al capitolo 5 nel caso di Iairo, la cui figlia stava morendo, quando lo fa aspettare mentre si ferma per aiutare una donna con perdite croniche di sangue. Ma come si spiegano gli altri dettagli di questo caso? Perché questi gesti strani? Dita nelle orecchie? Saliva sulla lingua?

Mettiamoci un attimo nei panni del sordomuto. Vive nel “territorio della Decapoli” (7:31), una regione in cui, rispetto alla Galilea, Gesù ha operato e predicato di meno. Ma anche se le voci circa il potere di Gesù potevano essere giunte fino anche a lì, egli è un sordomuto, incapace di ascoltarle! È anche possibile, se non probabile, che egli fosse analfabeta, per cui non avrebbe neanche sentito nominare Gesù! Non dobbiamo dare per scontato, dunque, che il sordomuto fosse consapevole di chi la gente lo portava a incontrare.

Immaginiamoci la scena. Siamo quel sordomuto, e siamo stati portati a un uomo che, a quanto pare, è molto noto a tutti, ma non ne sappiamo il motivo. Perché i nostri parenti e vicini di casa sono talmente entusiasti di farci incontrare quest’uomo? Stiamo per vedere, perché siamo finalmente nella presenza di quest’uomo, che poi ci conduce in disparte, fuori dalla folla. Siamo un po’ ansiosi di scoprire ciò che intende fare. Poi, lo sentiamo ficcare le sue dita nelle nostre orecchie, e vediamo mentre raccoglie un po’ di saliva dalla sua lingua e la mette sulla nostra.

Capiamo subito che quest’uomo sa quali problemi abbiamo, che le nostre orecchie non odono e la nostra lingua non parla in quanto sono queste le parti del nostro corpo che ha toccato. In più, non vogliamo quasi permetterci di sperare, anche se quest’uomo chiaramente si ritiene capace di guarirci. Come lo sappiamo? È perché nella nostra cultura, alla saliva viene attribuita proprietà curative. Con il suo gesto di mettere la propria saliva sulla nostra lingua, quest’uomo ha comunicato la sua intenzione di sciogliercela, il che dovrà per forza comportare anche la guarigione del nostro udito.

In quanto egli ci mette la propria saliva sulla lingua, ci fa capire che è la sua forza vitale a rinnovare la nostra, che in qualche modo sarà l’unione tra lui e noi che ci guarirà. Infine, lo vediamo alzare gli occhi al cielo — un gesto che indica palesemente da dove viene il suo potere di guarire — e poi sospirare — un altro gesto che esprime la sua tristezza, se non la sua rabbia, che una tale malattia come la nostra affligga i figli degli uomini. È solo a questo punto che vediamo muoversi le sue labbra, ma ormai sappiamo che cosa quest’uomo crede di poter fare. E quasi non crediamo noi, se non per il fatto che all’improvviso, le nostre orecchie si aprano e si riempiano di un mare di suoni e di rumori, e la nostre lingua sia miracolosamente in grado di parlare. E attenzione: non siamo solo capaci di balbettare, che già sarebbe un miracolo. Siamo in grado di parlare “bene” (v.35)! Incredibile!

2.3. La misericordiosa attenzione di Gesù

Usando la nostra immaginazione, avremo forse compreso meglio il significato dei gesti di Gesù. Egli, sapendo che il sordomuto non poteva capire le sue intenzioni in nessun altro modo, gliele ha dimostrate con le dita, con la lingua, con gli occhi e con il fiato. Il sordomuto non era capace di interagire con Gesù come la donna pagana, il cui incontro si basava sulle parole. Non era neanche capace di mostrare una fede simile, in quanto (come dice Paolo in Romani 10:17) “la fede viene da ciò che si ascolta”. Il sordomuto viene da Gesù, Marco dice, non per la sua iniziativa ma perché altri “condussero da lui un sordo che parlava a stento; e lo pregarono che gli imponesse le mani” (v.35). In ogni dettaglio, Gesù risponde al sordomuto a seconda dei suoi bisogni particolari. Gli ha comunicato nell’unico modo in cui il sordomuto poteva capire, e con pochi ma potenti gesti, gli ha fatto sapere chi era: il Salvatore, venuto dal cielo, per rimediare alle afflizioni del mondo per le sue grandi compassioni.

Pensate, infatti, a quanto sono grandi le compassioni di Gesù. Non ci tratta tutti uguali, perché ognuno di noi è un caso unico, e i nostri bisogni sono diversi. Sì, alla fine il nostro bisogno principale è sempre la guarigione, nel senso più ampio del termine: corpo e spirito, malattia e peccato, le orecchie con cui odiamo la parola degli uomini e le orecchie del cuore con cui odiamo la parola di Dio. Ma la specifica cura che ci occorre non è sempre la stessa, e Gesù ci tratta nell’esatto modo di cui abbiamo bisogno. Con la donna pagana, Gesù ha parlato di cagnolini, ma con il sordomuto, Gesù gli ha messo saliva sulla lingua, perché questo è precisamente ciò che il bisogno di ognuno richiedeva. Gesù non ci tratta tutti uguali, e spesso ci tratta in modi strani che non possiamo ben capire, ma alla fine dobbiamo tutti ringraziarlo e lodarlo dicendo: “Egli ha fatto ogni cosa bene!”

Ecco, dunque, la misericordiosa attenzione di Gesù. Detto più semplice, Gesù ci vede. Sa quali sono le nostre malattie, le nostre difficoltà, le nostre paure, le nostre ansie, le nostre afflizioni, e le nostre mancanze, come sa anche quali sono i nostri desideri, i nostri interessi e i nostri sogni. Non c’è nulla che gli sfugga. Nell libro di Apocalisse, quando parla alle sette chiese di Asia, inizia sempre dicendo: “Io conosco…”. Magari nessun altro conosce il nostro dolore, ma Gesù lo conosce. Forse nessun altro vedo come siamo maltrattati, ma Gesù lo vede. Se rimanessimo abbandonati da tutti, troveremmo Gesù sempre al nostro fianco. Come canta il salmista nel Salmo 56:8:

Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime nell’otre tuo; non le registri forse nel tuo libro?

Che consolazione sapere che ogni singola lacrima che versano i nostri occhi sono raccolte e registrate dal Signore! Quanto è grande l’attenzione che egli ha nei nostri confronti! Non è vero, come tanti dicono e come siamo propensi a pensare anche noi, che le nostre problematiche sono troppo piccole da essere prese in considerazione dal Dio che ha l’intero universo da gestire! In Gesù, conosciamo il Dio che ci vede e ci conosce intimamente, personalmente e individualmente, e possiamo essere certi che, per quanto possano essere strane le sue vie, egli sta facendo ogni cosa bene nei nostri confronti.

3. Conclusione

In conclusione, voglio solo ribadire quanto abbiamo già imparato riguardo alla risposta appropriata e dovuta al nostro grande Salvatore: essere “pieni di stupore” e di ringraziarlo sempre dicendo: “Egli ha fatto ogni cosa bene”. È anche nostro privilegio divulgare tutto il bene che il Signore ci ha fatto, non perché ci viene imposto come obbligo, ma come naturale e spontanea espressione della nostra gratitudine e della nostra meraviglia. Certo, quelli che divulgavano il fatto del sordomuto lo facevano contro l’ordine di Gesù. Ma la ragione specifica per quel divieto non vale più (dato che non era ancora ora che Gesù morisse e risuscitasse), ed è dunque nostra gioia divulgare, come loro, come Gesù ha fatto ogni cosa bene anche nei nostri confronti. Se ci sentiamo pochi grati al Signore, se la nostra adorazione manca di passione e la nostra testimonianza è ostacolata dalla paura, forse il rimedio è di ricordarci ancora quanto bene il Signore ci ha fatto, come egli ci vede e ci conosce, e quanto sono immisurabili le sue compassioni.

Chiudo con una parte del Salmo 139 che ben riassume tutto questo:

1 SIGNORE, tu mi hai esaminato e mi conosci.
2 Tu sai quando mi siedo e quando mi alzo,
tu comprendi da lontano il mio pensiero.
3 Tu mi scruti quando cammino e quando riposo,
e conosci a fondo tutte le mie vie.
4 Poiché la parola non è ancora sulla mia lingua,
che tu, SIGNORE, già la conosci appieno.
5 Tu mi circondi, mi stai di fronte e alle spalle,
e poni la tua mano su di me.
6 La conoscenza che hai di me è meravigliosa,
troppo alta perché io possa arrivarci.
7 Dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito,
dove fuggirò dalla tua presenza?
8 Se salgo in cielo tu vi sei;
se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là.
9 Se prendo le ali dell’alba
e vado ad abitare all’estremità del mare,
10 anche là mi condurrà la tua mano e mi afferrerà la tua destra.
11 Se dico: «Certo le tenebre mi nasconderanno
e la luce diventerà notte intorno a me»,
12 le tenebre stesse non possono nasconderti nulla
e la notte per te è chiara come il giorno;
le tenebre e la luce ti sono uguali.
13 Sei tu che hai formato le mie reni,
che mi hai intessuto nel seno di mia madre.
14 Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo stupendo.
Meravigliose sono le tue opere,
e l’anima mia lo sa molto bene.
15 Le mie ossa non ti erano nascoste,
quando fui formato in segreto
e intessuto nelle profondità della terra.
16 I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo
e nel tuo libro erano tutti scritti
i giorni che mi eran destinati,
quando nessuno d’essi era sorto ancora.
17 Oh, quanto mi sono preziosi i tuoi pensieri, o Dio!
Quant’è grande il loro insieme!
18 Se li voglio contare, sono più numerosi della sabbia;
quando mi sveglio sono ancora con te.

Amen!

 

Marco 4: Il mistero del regno di Dio

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1. Introduzione (Marco 4:1-2, 13)

1 Gesù si mise di nuovo a insegnare presso il mare. Una gran folla si radunò intorno a lui. Perciò egli, montato su una barca, vi sedette stando in mare, mentre tutta la folla era a terra sulla riva. 2 Egli insegnava loro molte cose in parabole, e diceva loro nel suo insegnamento:… 13 Poi disse loro: «Non capite questa parabola? Come comprenderete tutte le altre parabole?

1.1. Una parabola sulle parabole

Per comprendere bene i vangeli, è indispensabile sapere comprendere le parabole. Incontriamo spesso le parabole negli insegnamenti di Gesù, e secondo egli stesso, esse rivelano il “mistero del regno di Dio”. Tuttavia, le parabole sono un po’ “ingannevoli” nel senso che a primo sguardo appaiono molto semplici, ma dopo ulteriori riflessioni risultano molto più difficili. Se mai le parabole di Gesù ci lasciano perplessi, questo non è effetto casuale: Gesù stesso dichiara che le parabole mirano a rivelare, sì, ma in modo tale che venga nascosto a molti ciò che viene rivelato.

Gesù, però, non ci lascia senza un aiuto. A “chi ha orecchi per udire”, Gesù provvede a dare la chiave di comprensione nella forma della parabola del seminatore, o dei quattro terreni. In Marco 4:13, Gesù spiega che capire questa parabola è necessario per capire poi tutte le altre. La parabola del seminatore, dunque, è una “meta-parabola”, ovvero una parabola sulle parabole. Tra le varie lezioni che possiamo imparare da questa parabola, è Gesù stesso a indicare la cosa principale che dobbiamo trarne, spiegando il motivo sorprendente per cui, in questo momento del suo ministero, comincia a non parlare alla gente “senza parabola” (Marco 4:34).

1.2. Il riassunto dell’argomento

Il motivo — e il riassunto dell’argomento di oggi — è il seguente: le parabole sono storie che creano la realtà che raccontano, la realtà del regno di Dio che contraddice tutto ciò che pensiamo riguardo a come il mondo reale funziona. Le parabole prendono spunto dal mondo come lo osserviamo, sì, ma poi lo capovolgono e descrivono una realtà completamente contraria. Però, ciò che distingue le parabole da qualsiasi altra storia di fantasia o di realtà alternative — come, per esempio, Guerre stellari o Avatar — è che nel momento in cui vengono raccontate, le parabole portano all’esistenza la realtà che narrano, in modo che il mondo che pensiamo di conoscere diventi sempre meno reale nei loro confronti. Avete mai sentito dire: “la verità è più strana della finzione”? Le parabole sono una “finzione più vera della realtà”.

1.3. Il contesto (4:3-9, 14-20)

La parte veramente critica di questo capitolo è ai vv.10-12, la “carne” del famoso “panino” narrativo, piazzato tra le due fette di pane, che sono la parabola stessa (vv.3-9) e la sua spiegazione (vv.14-20). Per mangiare questo panino, vogliamo arrivare fino alla carne in mezzo, ma per farlo dobbiamo prima imboccare le due fette di pane che la racchiudono. Quindi, procediamo con la lettura della parabola:

3 «Ascoltate: il seminatore uscì a seminare. 4 Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; e gli uccelli vennero e lo mangiarono. 5 Un’altra cadde in un suolo roccioso dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; 6 ma quando il sole si levò, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. 7 Un’altra cadde fra le spine; le spine crebbero e la soffocarono, ed essa non fece frutto. 8 Altre parti caddero nella buona terra; portarono frutto, che venne su e crebbe, e giunsero a dare il trenta, il sessanta e il cento per uno». 9 Poi disse: «Chi ha orecchi per udire oda»…

Accantonando per il momento i versetti chiave, saltiamo al v.14 e leggiamo adesso la spiegazione della parabola:

14 Il seminatore semina la parola. 15 Quelli che sono lungo la strada sono coloro nei quali è seminata la parola; e quando l’hanno udita, subito viene Satana e porta via la parola seminata in loro. 16 E così quelli che ricevono il seme in luoghi rocciosi sono coloro che, quando odono la parola, la ricevono subito con gioia; 17 ma non hanno in sé radice e sono di corta durata; poi, quando vengono tribolazione e persecuzione a causa della parola, sono subito sviati. 18 E altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine; cioè coloro che hanno udito la parola; 19 poi gli impegni mondani, l’inganno delle ricchezze, l’avidità delle altre cose, penetrati in loro, soffocano la parola, che così riesce infruttuosa. 20 Quelli poi che hanno ricevuto il seme in buona terra sono coloro che odono la parola e l’accolgono e fruttano il trenta, il sessanta e il cento per uno».

Ora, la parabola, con l’aiuto della spiegazione di Gesù, non deve risultare troppo ostica. Il seminatore rappresenta chi semina “la parola”, che qui significa la predicazione del regno di Dio (Marco 1:14-15). Gesù è sicuramente il seminatore per eccellenza, però manderà anche gli apostoli a fare la stessa cosa (3:13-15). Le varie reazioni alla parola del regno di Dio vengono simboleggiata dai quattro terreni diversi che, nella maggioranza dei casi e per motivi vari, non ricevono la parola in maniera fruttuosa. Ciò che dimostra l’effettiva ricezione della parola nel cuore di una persona non è tanto l’apertura iniziale ma la maturità che si sviluppa col tempo e il frutto che si produce con perseveranza e costanza.

Da questo possiamo capire una prima ragione per cui Gesù racconta la parabola del seminatore a questo punto nel suo ministero. Finora, la predicazione di Gesù non ha portato i frutti che ci saremmo aspettati. Ecco il Messia — promesso da Dio e tanto desiderato dagli ebrei, la cui via è stata preparata da Giovanni il battista e la cui identità è stata ampiamente confermata dai suoi prodigi di guarigioni e di esorcismi — eppure è stato più volte rifiutato da molti, soprattutto dagli esperti e dai dottori delle Scritture che avrebbero dovuto in primis riconoscere Gesù come Messia.

Quale spiegazione può essere data per questo stranissimo fatto? Se Gesù fosse veramente il Messia, non dovrebbe invece essere acclamato come tale dalla maggioranza? La parabola, con la sua descrizione dei vari tipi di terreni, scava sotto la superficie e rivela ciò che giace nel profondo del cuore umano — l’influenza del maligno, l’amore degli idoli, l’ipocrisia religiosa — che impedisce alla parola di compiere la sua opera. Gesù viene rifiutato non perché non sia il Messia, ma perché il terreno del cuore umano non è in grado di riceverlo in modo fruttuoso.

Dire questo, però, è solo una parte della verità. Se la ragione per l’apparente inefficacia della parola fosse solo questa, susciterebbe un’altra difficoltà: perché allora è la parola impotente nei confronti del cuore umano? Se l’efficacia della parola dipende dalla ricettività del terreno, siamo praticamente tutti nei guai. Se la parola non è in grado di creare la propria ricezione nei vari terreni, che speranza c’è per la maggioranza dell’umanità? Alla fine, qual è più potente: la parola o il peccato? Questa domanda ci porta alla “carne” di questo capitolo dove Gesù rivela la ragione principale per cui viene rifiutato e il ruolo delle parabole nel suo ministero.

2. Il mistero del regno di Dio (Marco 4:10-12)

10 Quando egli fu solo, quelli che gli stavano intorno con i dodici lo interrogarono sulle parabole. 11 Egli disse loro: «A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, affinché: 12 “Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati”».

2.1. Il regno di Dio è un mistero

 La prima indicazione che la parabola del seminatore ha lasciato gli ascoltatori di Gesù confusi è che i suoi discepoli (“quelli che gli stavano intorno con i dodici”) “lo interrogarono sulle parabole”, indicando così la loro incomprensione. Anziché rimanere scoraggiato per non aver insegnato con chiarezza, Gesù risponde, non subito con una spiegazione della parabola, ma piuttosto con una dichiarazione un po’ enigmatica sul perché delle parabole.

Innanzitutto, Gesù afferma che le parabole — come i suoi insegnamenti in generale — concernono il regno di Dio. Questa volta, però, Gesù aggiunge che il regno di Dio è fondamentalmente un “mistero”. Questo, di per sé, non dovrebbe stupirci. Nel vangelo, abbiamo già visto come Gesù spesso vieta agli altri di non rivelare la sua identità, di tenerla nascosta (3:12).

In più, Gesù costantemente delude e rovescia le aspettative della gente che lo circonda, specialmente i leader religiosi. Così viene da loro accusato di bestemmia, di associarsi a peccatori, di non osservare le loro tradizioni, di infrangere il sabato e, infine, di operare mediante il potere di Satana (Marco 2-3). Solo in base alle reazioni, dovremmo concludere che agli occhi dei suoi contemporanei, Gesù era una figura molto misteriosa, se non proprio pericolosa.

Tutto questo conferma ciò che Gesù asserisce riguardo al “mistero del regno di Dio” in Marco 4:11. Lungi dal risolvere le perplessità della gente, Gesù dice in effetti che le parabole servono a conservare, se non addirittura intensificare, questo mistero, perché “a voi [discepoli] è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole”. Le parabole, in altre parole, sono una pessima strategia di marketing in quanto non sono destinate a guadagnare a Gesù nuovi “follower” ma piuttosto a rafforzare le divisioni che si stanno già formando attorno a lui. A quelli a cui è dato di conoscere il mistero del regno di Dio, le parabole lo rivelano, mentre a quelli a cui non è dato di conoscere il mistero del regno di Dio, le parabole lo nascondono.

2.2. Il mistero della grazia di Dio

 Se il v.11 ci lascia sconvolti, non troveremo il v.12 di nessun aiuto. Se Gesù non fosse già abbastanza chiaro, quello che dice al v.12 toglierebbe ogni dubbio: “tutto viene esposto in parabole, affinché: ‘Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati’”. Gesù non potrebbe essere più categorico per quanto riguarda le sue intenzioni. “A quelli che sono di fuori”, le parabole fanno sì che la gente non discerna, non comprenda, non si converta e non sia perdonata. Ma come? Gesù non forse contraddice ciò che altri passi biblici affermano circa il desiderio di Dio che “tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità” (1 Timoteo 2:4)?

La risposta a questa domanda è duplice, di cui la prima parte deriva proprio dal “mistero del regno di Dio”. Per dirla breve, il regno di Dio è il regno della grazia. Poiché la grazia non rispetta i meriti ma opera proprio nei confronti di chi non n’è degno, capovolge tutto ciò che pensiamo relativo al moco in cui il mondo funziona. Nel regno di Dio, non è la malattia ma la salute che è contagiosa (Marco 1:40-45). Non è il capo della sinagoga che Gesù si ferma per aiutare ma una donna impura (5:21-33). Non è la sufficienza del pane a sfamare la moltitudine ma il potere di Dio di fare l’impossibile (6:30-44). Non sono i più grandi a essere i più grandi ma invece i più piccoli, i più bassi, i servi di tutti (10:42-44). Non sono i ricchi a essere benedetti, ma i generosi che danno quello che hanno agli altri (10:17-22). Nel regno di Dio, chi cerca di salvarsi la vita la perderà, e chi la perde perché rinuncia a se stesso e prende la sua croce per seguire Gesù la salverà.

Ora, tutte queste cose sono diametralmente opposte all’apparente realtà in cui viviamo la quotidianità. Ecco perché il regno di Dio è un mistero, incomprensibile alla maggior parte delle persone. Le parabole non fanno eccezione. Anzi, esse sono parte integrante dell’irruzione del regno di Dio nel nostro mondo in quanto fanno arrivare la realtà che descrivono. La parabola del seminatore, per esempio, descrive una realtà in cui gli inclusi vengono esclusi, mentre gli esclusi vengono inclusi. Nella parabola, i terreni infruttuosi rappresentano coloro che hanno appena attributo il potere di Gesù a Satana, e anche i parenti di Gesù che dicevano di lui: “È fuori di sé” (3:20-30). Questi sono quelli che “sono di fuori” a cui le parabole nascondono il mistero del regno di Dio. Ciò che stupisce, però, è che questi, considerati dal punto di vista religioso, sociale o anche umano, dovrebbero invece essere quelli di dentro!

Dall’altro canto, Gesù dice che i suoi veri parenti sono quelli che fanno “la volontà di Dio” (3:34). Tra questi sono, per esempio, dei semplici pescatori (uomini di poco conto culturale), peccatori come Levi il pubblicano e altri “malati” ed emarginati della società (1:16-20; 2:13-17). Questi sono coloro ai quali “è dato di conoscere il mistero del regno di Dio”. Quindi, vediamo come Gesù ridefinisca completamente cosa vuol dire essere “inclusi” ed “esclusi”, e come questa ridefinizione sovverta completamente tutte le nostre idee di meriti e di demeriti, di grande e di piccolo, di buono e di cattivo, di giusto e di ingiusto. Questa, in sintesi, è il mistero della grazia di Dio. In quanto le parabole creano e rafforzano questa ridefinizione, non solo descrivono la realtà del regno di Dio ma la realizzano in mezzo a quella vecchia.

Così, scopriamo la prima parte della risposta alla domanda: perché Gesù racconta parabole per dividere la gente tra “inclusi” ed “esclusi”? Lo fa per dimostrare che il mistero del regno di Dio è il mistero della grazia di Dio che dichiara guerra contro tutta la saggezza e tutta la sapienza umana. Se a questo punto nel suo ministero, Gesù non facesse questa distinzione, gli inclusi “per diritto”, come i leader religiosi e i suoi parenti, avrebbero di che vantarsi: “certo che Gesù ci abbia rivelato il mistero del regno di Dio, perché ne siamo degni!”.

Per far capire che il regno di Dio è un regno di grazia, Gesù deve non solo chiamare i “peccatori” ma deve anche allontanare coloro che si reputano i “giusti” (2:17) in modo che gli unici che comprendono il mistero del regno di Dio siano quelli a cui “è dato” per grazia. Solo così sarà evidente che “non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia” (Romani 9:16). Siccome le parabole fanno vedere questa distinzione, sono assolutamente indispensabile alla rivelazione del mistero del regno di Dio.

2.3. La vocazione di Isaia (Isaia 6)

Ho detto, però, che questa è solo la prima parte della risposta, perché manca ancora qualcosa di fondamentale: le parabole, come la grazia, non esclude gli inclusi solo per lasciarli sempre così. Quando questi si accorgono di non essere in realtà degni del regno di Dio, giungono finalmente al punto in cui sono pronti a ricevere la grazia. Ad aiutarci a vedere questo, dobbiamo tornare al profeta Isaia, che Gesù ha citato per spiegare il motivo delle parabole. Leggiamo il sesto capitolo di Isaia nella sua interezza:

1 Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. 2 Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava. 3 L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» 4 Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. 5 Allora io dissi: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!» 6 Ma uno dei serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle dall’altare. 7 Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato».

8 Poi udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò? E chi andrà per noi?» Allora io risposi: «Eccomi, manda me!» 9 Ed egli disse: «Va’, e di’ a questo popolo: “Ascoltate, sì, ma senza capire; guardate, sì, ma senza discernere!” 10 Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendigli duri gli orecchi, e chiudigli gli occhi, in modo che non veda con i suoi occhi, non oda con i suoi orecchi, non intenda con il cuore, non si converta e non sia guarito!» 11 E io dissi: «Fino a quando, Signore?» Egli rispose: «Finché le città siano devastate, senza abitanti, non vi sia più nessuno nelle case, e il paese sia ridotto in desolazione; 12 finché il SIGNORE abbia allontanato gli uomini, e la solitudine sia grande in mezzo al paese. 13 Se vi rimane ancora un decimo della popolazione, esso a sua volta sarà distrutto; ma, come al terebinto e alla quercia, quando sono abbattuti, rimane il ceppo, così rimarrà al popolo, come ceppo, una discendenza santa».

In questo brano, Isaia riferisce la sua vocazione come profeta, un’esperienza drammatica e indimenticabile, quando ha avuto la visione del Signore nel tempio. Isaia rimane scosso fino in fondo per essersi trovato, lui un peccatore, in presenza del tre-volte-santo Dio. Anziché essere annichilato, Isaia viene purificato per pura grazia, e quando poi il Signore chiede chi manderà come profeta, Isaia si offre subito perché sa di non appartenere più a se stesso ma esclusivamente al Dio che gli ha mostrato misericordia. Già l’esempio personale di Isaia illustra la dinamica dell’operazione della grazia.

Isaia non è preparato, però, per quanto segue. La sua vocazione sarà di parlare al popolo in modo da (e qui c’è la parte citata da Gesù) renderlo insensibile e incredulo affinché non si converta e non sia guarito. Quando Isaia chiede fino a che punto deve svolgere questo pesante compito, Dio gli indica che sarà “finché le città siano devastate, senza abitanti… e il paese sia ridotto in desolazione”, quando del popolo rimanga solo un residuo come rimane solo un ceppo quando un albero viene tagliato. Qui vediamo un chiaro parallelismo con il ministero di Gesù e lo scopo delle parabole. Non è che la parola seminata sia più debole del peccato. Quando la parola rende il cuore più duro ancora, anche questo è parte della sua opera che compie infallibilmente.

 2.4. Il ceppo e il ramo (Isaia 11:1-10)

Più avanti in Isaia, però, riappare l’immagine del ceppo, e scopriamo qual è il suo fine più grande. Leggiamo al capitolo 11:

1 Poi un ramo uscirà dal tronco d’Isai, e un rampollo spunterà dalle sue radici. 2 Lo Spirito del SIGNORE riposerà su di lui: Spirito di saggezza e d’intelligenza, Spirito di consiglio e di forza, Spirito di conoscenza e di timore del SIGNORE. 3 Respirerà come profumo il timore del SIGNORE, non giudicherà dall’apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire, 4 ma giudicherà i poveri con giustizia, pronuncerà sentenze eque per gli umili del paese. Colpirà il paese con la verga della sua bocca, e con il soffio delle sue labbra farà morire l’empio. 5 La giustizia sarà la cintura delle sue reni, e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi. 6 Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. 7 La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. 8 Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente. 9 Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo, poiché la conoscenza del SIGNORE riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare. 10 In quel giorno, verso la radice d’Isai, issata come vessillo dei popoli, si volgeranno premurose le nazioni, e la sua residenza sarà gloriosa.

Nel suo ruolo limitato, Isaia doveva parlare in modo da confondere e non chiarire, rovinare e non redimere. Ma da quel piccolo ceppo rimasto, Dio avrebbe fatto spuntare un ramo che sarebbe diventato un albero la cui ombra sarebbe distesa in tutta la terra. Questo ramo, il Messia, avrebbe instaurato un regno universale di pace e di giustizia in cui tutte le nazioni sarebbero state benedette.

Questo, dunque, è lo scopo finale delle parabole nel ministero di Gesù. Nell’immediato, mirano a dividere e ad allontanare la gente, facendo capire che il regno di Dio non è un diritto o un premio ma un dono di grazia. Ma una volta ridotto il popolo a un ceppo — alla fine del vangelo vediamo infatti che è solo Gesù che rimane, senza pure i discepoli, perché solo lui è in grado di espiare i peccati del mondo — quel ceppo diventerà un albero tanto grande che persino gli esclusi (che prima erano gli inclusi) potranno essere inclusi di nuovo per fede. Non è questo il significato della parabola che Gesù racconta al 4:30-32?

30 Diceva ancora: «A che paragoneremo il regno di Dio, o con quale parabola lo rappresenteremo? 31 Esso è simile a un granello di senape, il quale, quando lo si è seminato in terra, è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; 32 ma quando è seminato, cresce e diventa più grande di tutti gli ortaggi; e fa dei rami tanto grandi, che all’ombra loro possono ripararsi gli uccelli del cielo».

Le parole dell’apostolo Paolo in Romani 11: azzeccano perfettamente l’argomento:

30 Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31 così anch’essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch’essi misericordia. 32 Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti.

In quanto le parabole compiono proprio questo, non solo comunicano il mistero del regno di Dio ma lo attuano in mezzo ai regni del mondo.

3. Conclusione: Due esortazioni (Marco 4:24-29)

Qual è, dunque, la nostra responsabilità nei confronti di queste parabole? È lo stesso Gesù che ci dice come dobbiamo reagire:

3.1. Badate a ciò che udite (4:24-25)

24 Diceva loro ancora: «Badate a ciò che udite. Con la misura con la quale misurate sarete misurati pure voi; e a voi sarà dato anche di più; 25 poiché a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».

Poiché la parola frutta in base al tipo di terreno che la riceve, Gesù ci esorta a badare a ciò che udiamo. Se non ascoltiamo quello che sentiamo (ovvero la misura con la quale misuriamo), non possiamo aspettarci di sentire ancora di più. Ecco perché la nostra più grande responsabilità è verso la Scrittura, perché è in essa che il Signore ci parla e ci rivela Gesù Cristo. Se non ascoltiamo quella, ci “sarà tolto anche quello che [abbiamo]”.

3.2. Gettate il seme senza sapere come (4:26-29)

26 Diceva ancora: «Il regno di Dio è come un uomo che getti il seme nel terreno, 27 e dorma e si alzi, la notte e il giorno; il seme intanto germoglia e cresce senza che egli sappia come. 28 La terra da se stessa porta frutto: prima l’erba, poi la spiga, poi nella spiga il grano ben formato. 29 Quando il frutto è maturo, subito il mietitore vi mette la falce perché l’ora della mietitura è venuta».

In secondo luogo, dobbiamo essere fedeli nel gettare il seme nel terreno, a prescindere dal tipo di terreno che troviamo davanti. Non ci spetta individuare con che tipo di terreno abbiamo a che fare; questa è la funzione della parola stessa. La parola opera, “germoglia e cresce” senza che sappiamo come. Una volta ricevuta la parola, abbiamo la responsabilità di seminarla altrove, e in questo modo fruttiamo “il trenta, il sessanta e il cento per uno”, dimostrando così di aver veramente ricevuto la parola in noi come il buon terreno.

Amen!

Marco 1: Cruciformi con Cristo

 

Gustave Dore - Gustave Dore Bible John the Baptist preaching in the wildern - (MeisterDrucke-650983).jpg1. Introduzione (Marco 1:1)

1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio.

1.1. La storia che trasforma la storia

Più di ogni altra cosa, noi viviamo di storie. Mi spiego: più di qualsiasi idea, concetto, filosofia, valore o ideale, sono le storie che ci narriamo e in cui ci troviamo a dare il senso e il significato alle nostre vite. Quando leggiamo, dunque, le parole iniziali del vangelo secondo Marco: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”, dobbiamo intenderle in quest’ottica. Il vangelo, essendo “buona novella”, è fondamentalmente una storia. In realtà, è la storia più grande di tutte le storie, capace di trasformare radicalmente le nostre vite. Ci trasforma perché ridimensiona e ridefinisce la nostra realtà, e lo fa radicalmente perché il suo potere deriva dalla morte del vecchio e della risurrezione del nuovo. Come afferma l’apostolo Paolo in 2 Corinzi 5:17:

Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco sono diventate nuove.

Ma è anche per questo motivo che la storia del vangelo — la storia di Gesù Cristo — è spesso difficile da accettare. Non ci chiede nulla in quanto ci dà tutto gratuitamente (cioè per grazia); ma proprio per questo ci chiede tutto ciò che siamo, abbiamo e facciamo. Se il vangelo funzionasse come un contratto di lavoro — noi facciamo la nostra parte in modo che Dio diventi un debitore nei nostri confronti — avremmo anche il diritto di contestare le pretese che da parte sua ci sembrano esagerate. Tutto per grazia vuol dire, invece, che non c’è limite a quello che Dio può richiedere a noi, fino a sottoporre il nostro “vecchio uomo” alla morte per poterci risuscitare con Cristo.

1.2. Il riassunto dell’argomento

Questo, sin dall’inizio, è il messaggio del vangelo. Dico “sin dall’inizio”, perché è proprio questo che qui all’“inizio del vangelo di Gesù Cristo” che Marco si adopera per trasmetterci. Nella figura di Giovanni il battista, Marco ci fa vedere come Gesù ci chiama a diventare conformi a lui, il che significa diventare cruciformi con lui. Se sono storie a dar forma alle nostre vite, la forma che la storia di Gesù ci dà è quella della croce; dunque, la “cruciformità”. Oltre il suo ruolo come “messaggero che preparerà la … via” del Messia, Giovanni il battista ci fornisce un ottimo esempio di questa verità.

2. Il ministero di Giovanni il battista (Marco 1:2-8)

Secondo quanto è scritto nel profeta Isaia: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te. Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”». Venne Giovanni il battista nel deserto predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e tutti quelli di Gerusalemme accorrevano a lui ed erano da lui battezzati nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di pelo di cammello, con una cintura di cuoio intorno ai fianchi, e si nutriva di cavallette e di miele selvatico. E predicava, dicendo: «Dopo di me viene colui che è più forte di me, al quale io non sono degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari. Io vi ho battezzati con acqua, ma lui vi battezzerà con lo Spirito Santo».

2.1. Preparare la via (1:2-3)

Pur essendo l’inizio del vangelo di Gesù Cristo, ciò che Marco ha da riferire non inizia nel primo secolo d.C. bensì, come passa subito a precisare, nelle promesse di Dio fatte tramite la parola degli antichi profeti. Marca cita due profeti, Isaia e Malachia, per dimostrarlo. Il fatto che Marco menzioni solo Isaia non dovrebbe crearci problemi (come se fosse un errore), in quanto era comune tra gli ebrei dell’epoca citare un passo della Scrittura nominando una figura rappresentante. Gesù, per esempio, parla delle Scritture in generale, e poi menziona Mosè come l’autore (Giovanni 5:39-47), pur sapendo benissimo che altri, come Davide, ci hanno pur contribuito (Marco 12:35-37). Qui, Marco non fa altro che seguire quest’usanza, nominando Isaia come rappresentante di tutti i profeti, Malachia incluso.

Le due citazioni veterotestamentarie sono accomunate dal concetto della preparazione. In Isaia 40 (il contesto della seconda citazione), una voce solitaria grida l’imperativo di preparare “la via del Signore”, il quale sta per venire personalmente per consolare e liberare il suo popolo afflitto nell’esilio. Il riferimento a Malachia, invece, sottolinea la necessità di prepararsi perché il Signore sta per venire in giudizio. Conviene leggere il passo nel suo contesto in Malachia:

2:17 Voi stancate il Signore con le vostre parole, eppure dite: «In che modo lo stanchiamo?» Quando dite: «Chiunque fa il male è gradito al Signore, il quale si compiace di lui!» o quando dite: «Dov’è il Dio di giustizia?» 3:1 «Ecco, io vi mando il mio messaggero, che spianerà la via davanti a me; e subito il Signore, che voi cercate, l’Angelo del patto, che voi desiderate, entrerà nel suo tempio. Ecco, egli viene», dice il Signore degli eserciti. Chi potrà resistere nel giorno della sua venuta? Chi potrà rimanere in piedi quando egli apparirà? Egli infatti è come il fuoco del fonditore, come la potassa dei lavatori di panni. Egli si metterà seduto, come chi raffina e purifica l’argento, e purificherà i figli di Levi e li raffinerà come si fa dell’oro e dell’argento; ed essi offriranno al Signore offerte giuste. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signorecome nei giorni antichi, come negli anni passati. «Io mi accosterò a voi per giudicare e sarò un testimone pronto contro gli incantatori, contro gli adùlteri, contro quelli che giurano il falso, contro quelli che derubano l’operaio del suo salario, che opprimono la vedova e l’orfano, che fanno torto allo straniero e non hanno timore di me», dice il Signore degli eserciti.

Al capitolo successivo di Malachia, questo “giorno della sua venuta” viene descritta anche in questi termini terrificanti:

4:1  «Poiché ecco, il giorno viene, ardente come una fornace; allora tutti i superbi e tutti i malfattori saranno come stoppia. Il giorno che viene li incendierà», dice il Signore degli eserciti, «e non lascerà loro né radice né ramo.

Qui i peccatori e i trasgressori e gli impuri sono pregati di prepararsi, ovvero ravvedersi, in vista dell’imminente venuta del Signore che sarà “come il fuoco del fonditore” e giudicherà il popolo per raffinarlo “come si fa dell’oro e dell’argento”. Questo giudizio non è contrario alla consolazione promessa in Isaia 40, perché anche lì il problema fondamentale è quello del peccato. In entrambi i contesti, l’afflizione del popolo è dovuta al suo peccato, ossia alla sua condizione peccaminosa, e solo la purificazione del fuoco divino sarà in grado di liberarlo e poi di consolarlo.

2.2. Uno come Elia (2:4-6)

Ecco, dunque, l’importanza del ruolo di Giovanni il battista, il predetto “messaggero” la cui voce grida nel deserto. Se “tutti i malfattori saranno come stoppia” in “una fornace” quando il Signore viene, è necessario che uno lo preceda per avvertire il popolo, dandogli l’occasione per prepararsi. Così, Marco ci dice come Giovanni predicava “un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati”. Anche a noi che viviamo in un’epoca molto distante da quella di Giovanni, il simbolismo del battesimo non deve risultare ostico. Chi si sottopone al battesimo (che letteralmente significa “immersione”) dichiara in effetti che, come il corpo sporco deve essere lavato dall’acqua, così il cuore peccaminoso deve essere lavato dal ravvedimento e dal perdono. Questo spiega perché quelli che “accorrevano a lui ed erano da lui battezzati” dovevano essere in grado anche di confessare “i loro peccati”.

La descrizione di Giovanni al v.6 non serve tanto per rendere la narrativa più interessante quanto per stabilire la sua autorità come profeta e precursore del Messia. Chi si vestiva in questo modo (pelo di cammello con una cintura di cuoio) e mangiava roba come cavallette e miele selvatico (perché stava nel deserto) era da associarsi ai profeti, e in particolare a Elia che, non casualmente, appare nella profezia di Malachia come araldo del giorno del Signore (Malachia 4:5). Giovanni non era un pazzo o un imbroglione ma il promesso profeta come Elia il cui ministero segnalava l’incombente arrivo del Signore. Giovanni, in poche parole, doveva essere ascoltato.

2.3. L’acqua e lo Spirito (2:7-8)

Ai vv.7-8, Marco non manca di riferirci ciò che Giovanni predicava, perché il suo scopo non è di farci divertire con un racconto affascinante ma di esortare anche noi a dare retta al messaggio di Giovanni e di prepararci a quanto seguirà. Proseguendo nel vangelo, anche noi incontreremo Gesù, e così anche noi avremo bisogno di essere preparati alla radicale trasformazione che incontrare Gesù sempre fa. La prima cosa che Giovanni vuole farci sapere è che, per quanto possa essere importante il suo ruolo, non è nulla rispetto a colui che “dopo di me viene”. Giovanni chiama la gente a sé con un unico obbiettivo, quello di mandarla via da sé e a Gesù, colui che conta veramente. Quando Giovanni parla, non è tanto per far ascoltare le proprie parole quanto per far ascoltare la Parola di Dio stessa.

Uno dei motivi per cui io stimo Giovanni così tanto è perché egli non voleva essere stimato. È un po’ paradossale, lo so: Giovanni faceva di tutto per non farsi stimare dagli altri, ma per questo non riesco a non stimarlo! La qualità di mirare in basso è così rara tra noi esseri umani che stupisce quando la si vcede. La grandezza di Giovanni sta proprio nella sua desiderata piccolezza di fronte a Gesù, alla cui gloria Giovanni cercava unicamente di tirare la gente.

L’umiltà di Giovanni si manifesta prima nella sua affermazione di non essere “degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari” di Gesù, un servizio che in quella cultura era riservato solo ai più bassi degli schiavi. Giovanni dice in effetti che essere chiamato “schiavo di Gesù” sarebbe già un onore troppo grande per lui. Poi, Giovanni evidenzia ulteriormente la superiorità di Gesù distinguendo il suo ministero del battesimo “con acqua” da quello di Gesù, il battesimo “con lo Spirito Santo”. Il senso delle parole di Giovanni è questo: “Non confondete quello che faccio io con quello che farà il Messia dopo di me. Io vi battezzo con acqua che serve per lavare il corpo ma non ha niente a che fare con il cuore. Il Messia che annuncio, invece, vi battezzerà con lo Spirito Santo, e in questo modo egli vi purificherà non dalla sporcizia del corpo ma dall’impurità del peccato, facendovi diventare puri e santi agli occhi di Dio”.

3. Il ministero di Gesù il Cristo (Marco 1:9-15)

 In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato da Giovanni nel Giordano. 10 A un tratto, come egli usciva dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito scendere su di lui come una colomba. 11 Una voce venne dai cieli: «Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto».

12 Subito dopo, lo Spirito lo sospinse nel deserto; 13 e rimase là nel deserto per quaranta giorni, tentato da Satana. Stava tra le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. 14 Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio e dicendo: 15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo».

3.1. La superiorità di Gesù

A questo punto nella narrativa, Marco passa dal ministero di Giovanni a quello di Gesù, il quale si presenta a Giovanni per farsi battezzare. Ai versetti successivi, Marco descrive l’inizio del ministero di Gesù usando lo stesso schema con il quale ha descritto quello di Giovanni, e attraverso la conseguente serie di parallelismi, dimostra la superiorità di Gesù relativo a Giovanni.

Consideriamo la narrativa di Giovanni al livello macroscopico. Osserviamo tre componenti principali. Tutto inizia con la parola di Dio ai vv.2-3. Poi, l’attività di Giovanni nel deserto viene raccontata ai vv.4-6 e, infine, il contenuto essenziale della sua predicazione viene riportato ai vv.7-8. Ora, notiamo la stessa macrostruttura quando Marco comincia a parlare di Gesù. Ai vv.10-11, tutto inizia con la parola di Dio rivolta a Gesù: “Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto”. Poi, ai vv.12-13, l’attività di Gesù nel deserto viene raccontata: “rimase nel deserto per quaranta giorni, tentato da Satana”. Infinite, ai vv.14-15, il contenuto essenziale della sua predicazione viene riportato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo”.

Lungi dall’essere una mera ripetizione del ministero di Giovanni, Marco si serve di questi schemi paralleli per illustrare la superiorità di Gesù rispetto a Giovanni, rimarcando così la testimonianza di Giovanni stesso. Prima abbiamo sottolineato le similitudini tra le due narrative; ora scopriamo quali sono le differenze. Mentre entrambe cominciano con la parola di Dio, nel primo caso essa riguarda Giovanni mentre nel secondo essa è rivolta direttamente a Gesù. In realtà, anche nel primo caso, la parola è riferita sempre al Signore che viene: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via”. Chiaramente, è la venuta di Gesù, non quella di Giovanni, che ha più importanza.

Poi, entrambe le narrative descrivono le attività dei due personaggi nel deserto. L’attività di Giovanni, però, è tutta destinata alla preparazione alla venuta del Signore, mentre l’attività di Gesù è proprio quella destinata a compiere la salvezza. Egli va nel deserto (e, non casualmente, nel potere dello Spirito Santo) per affrontare il diavolo per quaranta giorni, richiamando i quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto a causa dell’infedeltà. Questo, come abbiamo avuto modo per dire in passato, era necessario affinché Gesù adempisse “ogni giustizia” (Matteo 3:15), vincendo laddove Israele aveva fallito.

Infine, entrambe le narrative riassumono la predicazione di Giovanni e di Gesù. Ma quella di Giovanni mira palesemente a esaltare Gesù, mentre quella di Gesù annuncia l’arrivo e il compimento del regno di Dio in quanto il re, egli stesso, è arrivato per compiere tutto ciò che Dio aveva promesso. In questo modo, Marco non lascia nessun dubbio su chi è l’unico vero eroe di questa storia: Gesù il Cristo.

3.2. L’ombra di Gesù

Ora, siccome il tempo di questo studio è limitato, dobbiamo fare una scelta su come proseguire. Potremmo soffermarci per approfondire la narrativa dell’inizio del ministero di Gesù, come abbiamo fatto in altre occasioni. Il testo, però, suscita un’altra domanda molto valida anch’essa: perché il ministero di Giovanni anticipa la forma di quello di Gesù? Forse, a motivo dell’ordine cronologico, potremmo concludere che Gesù, invece, ha cercato di imitare il ministero di Giovanni. Questo avrebbe senso, se non per il fatto che, come abbiamo scoperto, il ministero di Gesù non è solo una replica di quello di Giovanni ma lo supera di gran lunga. Non dobbiamo neanche inferire che Gesù, essendo più forte, sia semplicemente riuscito a far meglio ciò che faceva Giovanni, perché è lo stesso Giovanni ad aver dichiarato sin dall’inizio che “egli stesso non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla … vera luce che … stava venendo nel mondo” (Giovanni 1:8-9).

Quindi, arriviamo a questa conclusione: il ministero di Gesù era talmente potente che esercitava un’influenza retroattiva. Talmente era efficace e determinante il ministero di Gesù che Giovanni, infatti, l’aveva “imitato” ancor prima che Gesù iniziasse a svolgerlo! Tornando all’immagine della luce, Giovanni era come l’ombra che si vede prima dell’apparizione della figura che la getta, e per questo motivo ne aveva la stessa forma.

4. La cruciformità di Giovanni

Questa forma la possiamo chiamare “cruciformità”, proprio perché prende forma dalla croce che è al centro del vangelo. Come Marco mostra in questi sedici capitoli, la via alla croce percorsa da Gesù inizia già qui all’inizio del suo ministero, e giungerà al compimento la domenica della sua risurrezione.

4.1. La cruciformità secondo Paolo

La cruciformità che Marco ci illustra in modo quasi cinematografico, Paolo ci spiega in termini teologici in Filippesi 2:5-11. Leggiamo questo testo per avere un’idea chiara di cosa sia la cruciformità:

Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 10 affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 11 e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.

Paolo ci fornisce una descrizione incisiva della cruciformità di Cristo in tre passi. Primo, egli rinuncia ai suoi diritti in quanto Dio e si umilia, prendendo forma di servo. Secondo, ubbidisce alla volontà di Dio, fino a sottoporci alla morte di croce. Terzo, viene da Dio innalzato (atto che comprende sia la risurrezione che l’ascensione) al di sopra di ogni cosa. Nel contesto di Filippesi, Paolo non vuole solo trasmettere un bel pezzo di teologia ma insegnare anche che essere conformi a Cristo — lo scopo di ogni cristiano — significa essere cruciformi con Cristo:

3:10 Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte.

Questa verità fondamentale è esattamente ciò che, ripassando la narrativa di Giovanni il battista, il suo esempio esemplifica.

4.2. L’esempio di Giovanni (1:4-8)

Innanzitutto, vediamo l’umiliazione di Giovanni in quanto, nonostante un grande profeta come Elia, si abbassa a un livello persino inferiore a uno schiavo nei confronti di Gesù, desiderando scomparire in modo che Gesù possa avere il primato. Pur essendo molto popolare (“tutto il paese della Giudea e tutti quelli di Gerusalemme accorrevano a lui”), vuole distogliere tutta l’attenzione da sé e focalizzarla su Gesù.

In secondo luogo, Giovanni rimane fedele e ubbidiente alla sua vocazione, fino a finire in prigione e, come scopriamo al capitolo 6, a essere decapitato dal re Erode. La sua sorte non è stata una sfortuna casuale ma un sacrificio indispensabile alla sua missione: “Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio…”. In altre parole, l’inizio del ministero di Gesù è correlato alla fine di quello di Giovanni, quasi come se Giovanni dovesse essere letteralmente tolto di mezzo affinché Gesù potesse entrare in scena. L’incarcerazione e il successivo martirio di Giovanni sono stati del tutto coerenti con il suo ruolo da “messaggero che preparerà la via”. Una volta preparata la via, il servizio del messaggero è arrivato al termine, e l’ultimo compito suo era quello di scomparire perché Gesù potesse diventare tutto in tutto.

Infine, però, sappiamo che la croce non è la fine del percorso della cruciformità. Come Gesù è risuscitato ed è stato glorificato, così anche Giovanni. Certo, Marco non narra nessun tipo di esaltazione di Giovanni, ma inserisce un dettaglio molto affascinante quando racconta la sua morte. Leggiamo al capitolo 6:

14 Il re Erode udì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato ben conosciuto. Alcuni dicevano: «Giovanni il battista è risuscitato dai morti; è per questo che agiscono in lui le potenze miracolose». 15 Altri invece dicevano: «È Elia!» E altri: «È un profeta come quelli di una volta». 16 Ma Erode, udito ciò, diceva: «Giovanni, che io ho fatto decapitare, lui è risuscitato!»

Ovviamente, Erode e questi altri “alcuni” si sbagliavano nel pensare che Gesù fosse Giovanni risuscitato, ma solo in parte. L’unione con Cristo che produce nei suoi servitori l’umiliazione e la crocifissione è la stessa che li porterà anche alla risurrezione. Nonostante le loro sorti, la loro futura esaltazione è tanto certa quanto quella di Gesù dopo la sua morte. Gesù non era Giovanni risuscitato, ma egli era la garanzia della risurrezione di Giovanni. Come il battista aveva fedelmente seguito (sebbene in anticipo!) il percorso di Gesù fino alla morte, così Gesù sarebbe stato fedele nell’innalzarlo con sé, come infatti farà a tutti quelli che sono cruciformi con lui.

5. Conclusione: Conformi a Cristo, cruciformi con Cristo

Questa, dunque, è la promessa, ma anche la sfida, dell’esempio di Giovanni il battista. Diventare conformi a Cristo non è facile perché richiede che si diventi anche cruciformi con lui. Ma alla fin fine, considerando ogni altra possibile alternativa, non c’è via migliore. Solo Gesù è la via che conduce a Dio, la verità che non delude mai, e la vita eterna più forte della morte. Solo l’umiliazione con Gesù ci porterà alla vera gloria. Il regno di Dio, come Gesù dichiara in Marco 10:43-45, è quella realtà in cui il più alto è il più basso, dove il più grande è il “servo di tutti”, come anch’egli “non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti.” Se facciamo fatica ad accettare questa verità, torniamo ancora una volta all’importanza inestimabile della fede che, nonostante qualsiasi apparenza o sensazione, crede che è così, che la vita migliore è quella vissuta in cruciformità con Cristo. Ringraziamo Dio per averci dato degli esempi lampanti di questo, come Giovanni il battista.

Per concludere, voglio citare un altro di questi esempi dai cui scritti abbiamo già attinto con grande beneficio. In Romani 8:16-17, Paolo scrive queste meravigliose parole:

16 Lo Spirito stesso attesta insieme con il nostro spirito che siamo figli di Dio. 17 Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui.

Che sia così per tutti noi. Amen!

Apocalisse 21: Nuove tutte le cose

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1. Introduzione

Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi le cose che devono avvenire tra breve, e che egli ha fatto conoscere mandando il suo angelo al suo servo Giovanni. Egli ha attestato come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo tutto ciò che ha visto. Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia e fanno tesoro delle cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino!

1.1. L’apocalisse di Gesù Cristo

Chi si avvicina al libro di Apocalisse, il testo conclusivo della Bibbia, deve sempre tenere presente come inizia. È la “rivelazione di Gesù Cristo”: sia la rivelazione che Gesù fa conoscere, sia anche la rivelazione che è Gesù stesso. Notiamo inoltre la beatitudine pronunciata su chi legge, ascolta e fa tesoro di questo libro. Esso non è scritto per soddisfare le nostre curiosità riguardo al futuro né per confonderci in un labirinto di simbolismi esoterici. È un libro destinato alla lettura, all’ascolto, alla messa in pratica; insomma è destinato all’uso quotidiano per rafforzare e sostenere la fede cristiana “finché egli venga”.

Il passo che mediteremo oggi è tratto dal capitolo 21, versetti 1-8. Questo non è il più difficile dei capitoli da interpretare, ma nondimeno, essendo un testo del genere “apocalittico”, richiede una lettura molto attenta per poter veramente far tesoro del suo contenuto. Per quanto possa esserne difficile la comprensione, ne vale la pena, perché questo brano ci aiuta a mettere in pratica l’esortazione di 1 Pietro 1:13:

Perciò, dopo aver predisposto la vostra mente all’azione, state sobri, e abbiate piena speranza nella grazia che vi sarà recata al momento della rivelazione di Gesù Cristo.

Pietro ci insegna che è necessario avere la nostra speranza posta pienamente nella grazia che sarà nostra quando Gesù sarà rivelato dal cielo, al momento del suo ritorno. Questo è necessario perché solo così, Pietro indica, possiamo vivere una vita santa in mezzo al mondo corrotto:

Come figli ubbidienti, non conformatevi alle passioni del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza; ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta (vv.14-15).

 Per Pietro, come per Giovanni l’autore di Apocalisse, porre tutta la nostra speranza nella “rivelazione di Gesù Cristo” che non è ancora avvenuta è ciò che ci rafforzerà e sosterrà la nostra fede fino alla fine. È questa speranza che ci permetterà di “vincere”, uno dei temi principali di Apocalisse. Ma come possiamo porre tutta la nostra speranza in qualcosa di cui abbiamo poca conoscenza? Ecco l’importanza del libro di Apocalisse, e il suo inestimabile valore pratico per la vita di tutti i giorni.

1.2. Il contesto

Il capitolo 21 è il penultimo di Apocalisse. Nei capitoli precedenti, abbiamo visto in forma visionaria e simbolica tutto ciò che porterà al compimento del piano di Dio, dal momento che Gesù è morto, risuscitato e asceso in cielo fino al suo ritorno — o meglio la sua rivelazione — sulla terra. I capitoli 19 e 20, infatti, narrano proprio questo: l’apparizione di Gesù dal cielo, l’ultimo tentativo da parte di Satana e dei suoi servi di resistere e la loro sconfitta. Alla fine del capitolo 20, dopo che il diavolo viene “gettato nello stagno di fuoco e di zolfo” (v.10), Giovanni ci fa vedere il gran giorno di giudizio quando i vivi e i morti staranno davanti al Signore sul suo trono per essere da lui giudicati. Per quanto possa sembrare terrificante, questo giudizio è un momento di gioia incontenibile per i santi — e infatti per tutto il cosmo — perché segna la sconfitta finale del male e la pienezza del regno di Dio in tutto il creato.

1.3. Il riassunto dell’argomento

Poi, nei capitoli 21-22, Giovanni ci fa vedere una visione di questo creato “ricreato”. La visione è, come nel resto di Apocalisse, necessariamente piena di simbolismi: “necessariamente” perché non abbiamo la più pallida idea, né possiamo adeguatamente immaginare, come sarà il mondo senza il male e senza la morte. In tutta la Scrittura, questi due nemici sono sempre ritenuti degli invasori innaturali. Eppure ci siamo talmente abituati da non poter concepire minimamente il mondo senza di essi. Questo è il motivo per cui Giovanni ci parla in maniera simbolica: per stimolare la nostra immaginazione al punto che cominciamo a scorgere, se solo come in uno specchio oscuro, il mondo che Dio intende realizzare.

I versetti 1-8 del capitolo 21, specificamente, ci mostrano una visione di ogni cosa fatta nuova, dai cieli più alti alle profondità della terra più basse. Questa visione si concentra in particolare non solo sul nuovo mondo che Dio creerà ma anche sul nuovo popolo che lo abiterà. Quindi, un nuovo popolo per un nuovo mondo, in cui ogni cosa è fatta nuova. Questa è la speranza della rivelazione di Gesù Cristo.

2. Nuova ogni cosa (Apocalisse 21:1-4)

 1Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro {e sarà il loro Dio}. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».

 2.1. Passate le cose di prima (21:1, 4)

Cominciamo a vedere la realtà concreta di questa speranza al v.1 dove Giovanni riporta di aver visto “un nuovo cielo e una nuova terra”. Questa frase richiama le prime parole della Scrittura:

Nel principio Dio creò i cieli e la terra (Genesi 1:1).

 Notiamo, però, che questi sono nuovi, “poiché il primo cielo e la prima terra”, ovvero quelli di Genesi 1:1 che successivamente furono corrotti dal male, “erano scomparsi”. Il carattere di questo nuovo creato è evidente nel modo di dire ebraico che Giovanni usa per descriverlo, ossia un “merismo”. Il merismo è una figura retorica con la quale si esprime tutto quanto è compreso nei termini estremi. Quindi, come in Genesi 1:1, il “nuovo cielo” e la “nuova terra” che Giovanni descrive implica anche tutto ciò che è in essi. Nella prospettiva ebraico, i cieli e la terra rappresentavano gli estremi del creato; perciò, nominarli insieme era un modo per riferirsi al cosmo intero senza doverne declinare ogni elemento.

Il punto è che la nuova creazione che Giovanni vede è una in cui, come dice il v.5, saranno fatte “nuove tutte le cose”. Parte della speranza cristiana è che non ci sarà nemmeno un millimetro dell’intero universo che non sarà radicalmente trasformato secondo la volontà di Dio. Nel nuovo creato, dunque, non ci sarà neppure la più minima possibilità che il male, in qualsiasi forma, potrà irrompere per corromperlo come nel primo.

Questa speranza è simbolicamente rafforzata dalla frase “e il mare non c’era più”. Ora, per noi il mare rappresenta la felicità, la bellezza, il calore dell’estate e le vacanze spensierate trascorse in spiaggia. Ma nel punto di vista ebraico, il mare evocava il male come un potere indomabile di distruzione, un caos totale che minacciava sempre di annichilire la vita di qualsiasi sorte. Pensiamo, per esempio, alla storia del diluvio in Genesi 7:

10 Trascorsi i sette giorni, le acque del diluvio vennero sulla terra. 11 Il seicentesimo anno della vita di Noè, il secondo mese, il diciassettesimo giorno del mese, in quel giorno tutte le fonti del grande abisso eruppero e le cateratte del cielo si aprirono. 12 Piovve sulla terra quaranta giorni e quaranta notti…. 19 Le acque ingrossarono oltremodo sopra la terra; tutte le alte montagne che erano sotto tutti i cieli furono coperte. 20 Le acque salirono quindici cubiti al di sopra delle vette dei monti; le montagne furono coperte. 21 Perì ogni essere vivente che si muoveva sulla terra: uccelli, bestiame, animali selvatici, rettili d’ogni sorta striscianti sulla terra e tutti gli uomini. 22 Tutto quello che era sulla terra asciutta e aveva alito di vita nelle sue narici morì. 23 Tutti gli esseri che erano sulla faccia della terra furono sterminati…

Questo è il potere del mare, o più specificamente delle acque, quando esse “trasgrediscono” i loro confini che invadono la terra. Questo, inoltre, è il motivo per cui in Genesi 1 Dio comandò che le acque sotto il cielo fossero raccolte in un unico luogo che poi chiamò “mari”: per far apparire l’asciutto in modo che la terra potesse produrre della vegetazione e degli esseri viventi (vv.9-25). Nel primo creato, le acque erano limitate ai “mari”, ma presentavano sempre una mostruosa minaccia, poiché semmai dovessero oltrepassare i loro confini — come nel diluvio di Genesi 7 — avrebbero sterminato tutta la vita sulla faccia della terra. Nonostante la promessa di Dio che non avrebbe più promesso che le acque distruggessero tutta la terra, fino ai giorni nostri il potere micidiale delle acque si è dimostrato tante volte, per esempio nell’uragano Katrina del 2005 e nello tsunami di Giappone del 2011.

Quando, dunque, Giovanni osserva che nel nuovo creato il mare non c’è più, non dobbiamo lasciarci sfuggire l’enorme significato di questo. Se nel primo creato le acque, pur essendo di solito rinchiuse nei mari, comunque costituiscono un pericolo perenne e pauroso, nel nuovo creato questo pericolo non esisterà più. Non è solo che il male — simboleggiato dal mare — sarà irrevocabilmente incarcerato; esso semplicemente non esisterà affatto. Non è solo che si vivrà tranquilli sapendo che il male non potrà oltrepassare i suoi limiti; questi limiti non saranno più necessari in quanto il male cesserà di esistere. Il male non ci sarà più, ma neanche ci sarà la minaccia o la paura di un suo eventuale ritorno.

Questo è espresso in più dettaglio al v.4 quando dice che Dio “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate.” Tutte queste cose non saranno più né sentite né temute, perché passeranno nel dimenticatoio del primo creato. La speranza cristiana è veramente grande, troppo grande infatti da essere descritta in parole. Ecco perché Giovanni ci stuzzica l’immaginazione con l’immagine di una nuova terra in cui il mare non c’è più.

2.2. La santa città (21:2)

La visione di Giovanni prosegue, e al v.2 egli descrive “la santa città, la nuova Gerusalemme” che scende dal cielo. Come il discorso del mare, anche quest’immagine ci fa capire che la nuova creazione non sarà un mero ritorno al passato prima del peccato, solo un ripristino di ciò che fu perso. È vero che Giovanni richiama la creazione originale di Genesi 1 e 2 quando tratteggia la nuova — utilizzando, per esempio, termini relativi al giardino d’Eden. Tuttavia, non abbiamo qui solo un giardino ma una città. In Genesi, le città non appaiono subito, ma solo dopo che gli esseri umani cominciano a svolgere la loro vocazione di dominare sulla terra e rendersela soggetta (Genesi 1:28). Genesi 2:15 indica che

Dio il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse.

Lo sviluppo di tutte le potenzialità latenti del creato, compresa la costruzione di città, non fu parte dell’opera creatrice di Dio nel principio. Quando, dunque, vediamo una città sulla nuova terra, questo simboleggia come la nuova creazione supererà di gran lunga la prima. Questo non è un semplice ricominciare da capo, un ritorno al giardino primordiale; qui siamo già avanti rispetto all’Eden. Per quanto fosse idilliaco e utopistico prima del peccato, il primo mondo non può paragonarsi alla bellezza e alla meraviglia del nuovo mondo a venire.

In più, questa città è “santa”. Pensando di nuovo ai primi capitoli di Genesi, ci ricordiamo che le prime città costruite, come quella di Babele, rappresentavano la corruzione della vocazione umana, in quanto furono costruite non per portare gloria al Creatore ma invece alle creature. Anche la prima Gerusalemme, quella che doveva essere una città santa, divenne poi (come disse Gesù) un “covo di ladri”.

Nella nuova creazione, tutto questo è “fatto nuovo”. La città che si fonderà sulla nuova terra sarà tutto ciò che la prima Gerusalemme doveva essere: la santa dimora di Dio in mezzo al suo popolo. Al v.22, infatti, la nuova Gerusalemme non ha un tempio, perché è tutta la città stessa a essere il tempio. Non più saranno costruite città come Babele, o come Sodoma e Gomorra, neanche come la prima Gerusalemme. Sulla nuova terra ci sarà una sola città, la quale sarà santa nella sua interezza.

2.3. La sposa adorna (21:2-3)

La nuova Gerusalemme è ulteriormente descritta al v.2 “come una sposa adorna per il suo sposo”. Qui affrontiamo una domanda interessante. Al capitolo 19, la figura della sposa rappresenta i santi, il popolo purificato dal sangue dell’Agnello di Dio e pronto al matrimonio, cioè pronto a ereditare il regno di Dio. Passando al capitolo 21, invece, la sposa diventa il simbolo della santa città. Quindi, quale dei due rappresenta, la città santa o il popolo di Dio? La risposta è ”sì”; rappresenta entrambi! Leggiamo infatti al v.3 che quando la nuova Gerusalemme scende dal cielo, la voce di Dio annuncia che essa è “il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio.”

Questo è il compimento dell’intera narrativa biblica. Il proposito di Dio, stabilito prima della fondazione del mondo, è stato sempre questo: di essere Emanuele, Dio-con-noi, il Dio che si vincola a e dimora in mezzo a un popolo santo. Perché Dio possa dimorare in mezzo al suo popolo, ci deve essere anche un luogo capace di ospitarli. Questo è ciò che il giardino d’Eden doveva essere, ed è ciò che la nuova Gerusalemme sulla nuova terra sarà. Quindi, la figura della sposa rappresenta appunto sia il luogo santo sia il popolo santo in mezzo al quale Dio dimorerà per tutta l’eternità.

Questo, tra l’altro, è il motivo per cui il nuovo mondo sarà “paradiso”, come infatti indica il v.4. Un mondo senza morte, senza cordoglio, senza grido e senza dolore sarebbe comunque un inferno se in mezzo non ci fosse Dio stesso. Queste cose, come tutte “le cose di prima”, saranno passate solo perché sarà Dio ad asciugare ogni lacrima dai nostri occhi. Egli, in realtà, è la fonte della santità e della vita, ed è dunque solo nella sua presenza che possiamo sperimentare un mondo senza male e senza morte. Ciò che fa del nuovo mondo un “paradiso” è che lì vivremo appieno la comunione con Dio per cui siamo stati creati. Saremo con lui come suo popolo, ed egli sarà con noi come nostro Dio. Questa è la vera speranza che abbiamo, quella che ci tiene come un’ancora in mezzo alle tempeste più violente della nostra vita attuale. Questo è il nuovo popolo che Dio sta preparando per il suo nuovo mondo.

3. Compiuta ogni cosa (Apocalisse 21:5-6a)

E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi [mi] disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «Ogni cosa è compiuta. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine…

 Ma come possiamo essere certi di questa speranza, che non sia un mero augurio o, peggio ancora, un sogno impossibile? Proprio perché questa speranza è cruciale alla nostra vita, Giovanni ci fornisce tre motivi per cui possiamo sapere con certezza che la visione della nuova creazione si avvererà.

3.1. Colui che siede sul trono

Il primo motivo è che colui che promette di fare “nuove tutte le cose” è lo stesso che “siede sul trono” in cielo. Questo è infatti “il Signore Dio, colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (1:8). C’è forse qualcosa che sia impossibile all’onnipotente Dio? Assolutamente no! La nuova creazione sarà l’opera dello stesso Dio che nel principio creò i cieli e la terra dal nulla. Colui che fece il primo creato è sicuramente in grado di farne uno nuovo!

3.2. Parole fedeli e veritiere

Il secondo motivo consegue dal primo. Poiché è l’onnipotente Dio che siede sul trono che dice di fare “nuove tutte le cose”, possiamo sapere con certezza che le sue parole “sono fedeli e veritiere”. Sono veritiere perché si avvereranno, e sono fedeli perché colui che le proferisce le manderà a effetto. Siccome Dio è fedele e veritiero, così sono anche le sue parole, e non dobbiamo dunque dubitare che egli manterrà la sua promessa di creare nuovi cieli e una nuova terra.

3.3. L’alfa e l’omega

Il terzo motivo è anche esso radicato nella natura di Dio. Egli è “l’alfa e l’omega, il principio e la fine”. Quindi, dalla prospettiva divina, “ogni cosa è compiuta”, anche se non ci sembra che sia così. Dio sa ogni cosa dall’inizio alla fine, perché egli è l’inizio e la fine. Per lui, il futuro è tanto certo quanto il passato. Tutto è già scritto nel libro dell’Agnello (cap.5), e Dio ne è l’autore dalla prima alfa all’ultima omega. Non dobbiamo dunque dubitare di questa realtà solo perché i nostri occhi non riescono a vederla. Agli occhi di Dio essa è già compiuta; ogni cosa è già stata fatta nuova.

4. Ereditata ogni cosa (21:6b-8)

…A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita. Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio. Ma per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda».

4.1. Chi vince (21:7)

Rimane ancora una domanda, forse la più importante di tutte: chi erediterà queste cose nuove? Come possiamo sapere non solo che questa visione dei nuovi cieli e della nuova terra si avvererà ma anche che essa si avvererà per noi? È inutile che teniamo questa speranza se per noi non vale.

Al v.7, troviamo la prima parte della risposta: “chi vince erediterà queste cose”. Ma cosa significa vincere? Questo, come già accennato, è uno dei temi principali di Apocalisse e viene ampiamente spiegato nei capitoli precedenti. Nelle lettere alle sette chiese che aprono il libro, scopriamo che vincere vuol dire sopportare con costanza afflizioni per il nome di Gesù (2:3), rimanere fedele a Cristo fino alla morte (2:10), non scendere a compromessi con l’idolatria e con l’immoralità del mondo (2:14-15, 20-25), condurre una vita pura (3:4), serbare la parola di Dio (3:8), e ravvederci quando siamo ripresi e corretti dal Signore (3:19). Forse il modo più sintetico per definire cosa significa “vincere” in Apocalisse lo troviamo al 12:11:

Ma essi hanno vinto [il diavolo] per mezzo del sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza; e non hanno amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte. 

Vincere, in poche parole, vuol dire mantenere fiducia in Gesù e fedeltà nel testimoniare la sua parola, anche quando farlo costa la vita. Se vogliamo riassumere questo concetto in una sola parola, sarebbe “martirio”: ovvero testimoniare fino alla morte. Chi fa questo, dice Apocalisse 21:7, erediterà sicuramente i nuovi cieli e la nuova terra.

4.2. Ma per gli altri (21:8)

Ma per gli altri? La risposta è già anticipata al v.8: “Ma per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda.” Questo elenco non è esauriente ma indicativo; a differenza di quelli che vincono, queste persone — insieme a tutte le altre persone simili — non erediteranno la vita della nuova creazione ma la distruzione nello stagno ardente, la morte seconda.

Adesso consideriamo un paio di possibili domande: perché vengono nominati in particolare questi gruppi, e qual è precisamente la loro fine? La prima domanda è più facile. Queste categorie di persone erano particolarmente rilevanti ai cristiani delle sette chiese a cui il libro di Apocalisse fu inizialmente destinato alla fine del primo secolo. I codardi rinnegavano il nome di Gesù per paura della persecuzione. Gli increduli non credevano al vangelo neanche, spesso per la stessa ragione. Gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni e gli idolatri componevano la maggior parte della popolazione della società greco-romana, e le loro pratiche costituivano sempre una grande tentazione per i primi cristiani. I bugiardi, infine, erano particolarmente pericolosi in quanto distorcevano la verità del vangelo e condannavano non solo se stessi ma anche tutti quelli che gli davano retta.

Ora, è ovvio che ci sono anche oggi molte persone di questo tipo. Ma il punto principale è che questi, chiunque siano, sono l’esatto opposto di quelli che vincono: seguono l’andazzo del mondo, si lasciano ingannare dalle menzogne del tentatore, si arrendono ai desideri peccaminosi della carne e non perseverano nella testimonianza di Gesù. Sostanzialmente, Giovanni vuole farci capire che alla fine ci sono solo due modi di vivere: o siamo vincitori in Cristo o siamo sconfitti dal peccato. O siamo servi di Cristo o siamo schiavi del diavolo. O apparteniamo alla nuova creazione, o siamo destinati a passare come la vecchia creazione. Non c’è una via di mezzo. Se vogliamo assicurarci di essere tra i primi, gli eredi della vita eterna, dobbiamo stare attenti al comandamento ripetuto più volte:

Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese (2:7, 11, 17, 29; 3:6, 13, 22).

Come abbiamo visto nei primi versetti del libro, sono beati quelli che ascoltano e fanno tesoro delle cose che vi sono scritte. Ecco, per l’ennesima volta, l’incalcolabile importanza di Apocalisse per noi.

Che dire però della seconda domanda? La prima cosa da dire è semplicemente che non sappiamo bene quale sarà la fine dei perduti descritti al v.8, quale sarà la natura vera e propria della “morte seconda” simboleggiata dallo “stagno ardente di fuoco e di zolfo”. L’enfasi di questo capitolo non viene posta sulla morte seconda ma sulla vita eterna. C’è una notevole sproporzione tra le poche parole spese riguardo al destino dei perduti rispetto alle tante parole spese riguardo al destino dei santi. Quindi, mi sembra inappropriato congetturare più di tanto. Credo che sia sufficiente osservare che, qualunque sarà la realtà di cui lo stagno ardente e la morte secondo sono simboli, non sarà per niente desiderabile. Anzi, sarà da evitare a ogni costo, tanto che, come Gesù disse nel sermone sul monte:

Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te; poiché è meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella geenna (Matteo 5:29).

Quindi, per quanto possa essere difficile la vita cristiana, non è nulla in confronto a quanto sarà difficile l’unica altra alternativa. È vero: i cristiani soffriranno, e a volte anche fino alla morte per rimanere fedeli a Cristo. Ma la loro sofferenza avrà una fine, e la morte non li dominerà, mentre la sofferenza degli altri non avrà fine, e la loro parte sarà la morte eterna.

Se poi qualcuno dovesse obbiettare che una tale sorte sia incoerente con l’amore di Dio, basta notare che, infine, Dio non fa altro che concedergli quello che essi stessi hanno preferito. La nuova creazione sarà una realtà totalmente priva di paura. Come allora potrebbero entrarvi i cordardi? Essa sarà totalmente priva di impurità. Come allora potrebbero entrarvi i fornicatori? Sarà totalmente priva di falsità. Come allora potrebbero entrarvi i bugiardi? Come ha immaginato C.S. Lewis nella sua novella Il Grande Divorzio, tali persone, avessero la possibilità di visitare e di trascorrere un po’ di tempo in questo paradiso, vorrebbero subito scappare perché lo troverebbero insopportabile.

4.3. Il dono di ogni cosa (21:6b)

Però, attenzione. Non facciamo l’errore di concludere che sono solo i più bravi a ereditare la vita eterna. Tale conclusione sarebbe totalmente contraria a questo brano. Prima di distinguere tra i vincitori e i perduti ai vv.7-8, Dio proferisce questo invito: “A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita.” La vita eterna è sempre un dono gratuito. Non bisogna fare nulla per ereditarla, se non solo accettarla. “Chi ha sete”: ossia, non coloro che sono già bravi, già forti, che riescono con le proprie forze a resistere al mondo e vincere nel nome di Dio. “Chi ha sete” vuol dire chi non è né bravo né forte, chi non ce la fa con le proprie forze e ammette di non avere speranza senza che l’acqua della vita non gli venga offerta come dono gratuito.

La buona notizia del vangelo — ripetuta per l’ennesima volta anche qui nell’ultimo passo della Bibbia — è che Dio invita tutti e ognuno a venire e a bere l’acqua della vita che egli dona gratuitamente. L’unico requisito di poter bere quest’acqua è avere sete. Nello stesso modo, l’unico requisito per ereditare la vita eterna è esserne privi. Lo stesso Giovanni, nel vangelo che porta il suo nome, ci fa vedere un bellissimo esempio: una donna samaritana (quindi odiatissima dal punto di vista dei giudei), sessualmente promiscua e immorale, incontra Gesù il quale le dice:

«Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna» (Giovanni 4:13-14).

Sì, anche questa persona che tutti gli altri contemporanei di Gesù avrebbero subito respinto come indegna ed esclusa dal regno di Dio, Gesù invita a bere l’acqua della vita. La donna samaritana accetta l’invito di Gesù e la sua sete viene soddisfatta; non perché lei sia brava, ma semplicemente perché Gesù è la sorgente inesauribile della vita eterna, più che sufficiente per dare da bere a tutti in abbondanza.

Questo spiega qual è veramente la differenza dei vincitori e dei perduti in Apocalisse. I vincitori sono semplicemente quelli che hanno scoperto, come la donna samaritana, che l’unica sorgente dell’acqua della vita è Gesù Cristo, e da quel momento in poi non vanno mai da nessun’altra parte per dissetarsi. In un certo senso, dunque, possiamo dire che i vincitori non sono i più bravi ma solo i più assetati, e non si accontentano di niente se non della acqua della vita che Gesù dona gratuitamente.

Se gli altri che non ereditano la vita eterna — i codardi, gli increduli, gli abominevoli, ecc. — rimangono perduti, e solo per aver fatto ciò che il Signore descrive tramite il profeta Geremia:

Ha[nno] abbandonato me, la sorgente d’acqua viva, e si [sono] scavat[i] delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua (Geremia 2:13).

5. Conclusione

Per riassumere, dunque, abbiamo imparato che la speranza a cui dobbiamo sempre aggrapparci, la quale ci permette di condurre una vita santa in mezzo a un mondo malvagio, è questa: Dio ci sta preparando come un nuovo popolo per il suo nuovo mondo. Ci sta preparando come la sposa adorna per il giorno delle nozze, quando finalmente vivremo la perfetta e ininterrotta comunione con Dio per cui siamo stati creati. Nei momenti difficili, dobbiamo ricordarci che tutte le nostre lacrime, Dio un giorno le asciugherà dai nostri occhi. Dobbiamo ricordarci che ogni cordoglio, ogni grido, ogni dolore, e persino la morte stessa scompariranno nel giorno in cui Cristo ritorna per far nuove tutte le cose.

Dobbiamo ricordarci che questa speranza è certa e infallibile, perché il Dio che ce l’ha promessa è fedele e veritiero, il principio e la fine, l’Onnipotente. Dobbiamo tenere fermamente questa speranza — o meglio, lasciarci tenere fermamente da questa speranza — come un’ancora dell’anima, rimanendo costanti in questa speranza fino alla fine, testimoniandola anche se ci dovesse costare la vita. Infine, dobbiamo nutrire questa speranza usando i mezzi che Dio ci ha fornito: la preghiera, la comunione dei santi e la sua parola, di cui il libro di Apocalisse è il culmine. In questo modo, saremo anche noi i vincitori, pronti per la rivelazione di Gesù Cristo e dell’eredità che egli tiene in serbo in cielo per noi. Come abbiamo fatto riferimento a 1 Pietro 1 all’inizio di questo studio, così lo facciamo di nuovo qui alla fine:

Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per un’eredità incorruttibile, senza macchia e inalterabile. Essa è conservata in cielo per voi, che siete custoditi dalla potenza di Dio mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi. Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell’oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo.

Amen!